perché scatti per un nonnulla? Sono i tuoi interruttori cognitivi, o trigger

Quando qualcuno gli dice no, ma anche soltanto “non adesso”, ad Alberto scatta qualcosa dentro che non riesce a trattenere. E questo qualcosa lo porta a esprimere giudizi impietosi, a perdere fiducia prima in sé e poi negli altri, e infine, di conseguenza, a isolarsi.

Per Germana lo scatto avviene quando non riesce cum laude in qualcosa. Se non è la più brava, se non può essere la più brava, allora lascia. Spesso senza aver mai davvero ‘preso’ alcunché.

L’innesco di Simone è il tempo: come mai, dopo un anno che prende lezione di ghironda, nessuno gli ha ancora proposto di registrare un album?

Carola invece si illumina come una cassa armonica non appena qualcuno le promette che, grazie a un corso per donne di successo che potrà pagare in sole trenta comode rate mensili,  non sarà mai più invisibile.

Io… Be’, il gettone che fa partire la mia giostra è dimostrare che posso farlo. Certo, ho imparato molte cose grazie al mio interruttore, ma ho anche disperso un sacco di energie.

Qual è il tuo interruttore?

Cosa accende la passione dell’eroe? Cosa la spegne?
Cosa dà l’abbrivio al suo viaggio? Cosa lo impedisce?

Quando uno sceneggiatore si mette di fronte a una pagina bianca per raccontare una storia, può non essere certo che quella storia comincerà e finirà esattamente come ce l’ha in testa fino a un attimo prima di metterla nero su bianco, ma conosce sempre gli interruttori dei suoi personaggi.

Conoscere questi interruttori, infatti, gli permettere di modificare intere scene e scenari senza mai perdere il governo dei suoi eroi.

Allo stesso modo, imparando a conoscere e riconoscere i nostri interruttori, ovvero le nostre risposte offensive, difensive e condizionate che si accendono automaticamente al ricevimento di un dato input, anche noi possiamo essere certi di non perdere il governo della nostra sceneggiatura, di non rischiare di smarginare e disperderci.

Da dove arrivano ‘sti interruttori?

E perché sono diversi per ciascuno?

Ogni interruttore che compare nel quadro elettrico del nostro impianto emozionale si forma nel tempo ed è frutto di quell’insieme integrato di fattori che è l’ambiente.

Scrivono Marshall Goldsmith e Mark Reiter:

«L’ambiente non è semplicemente uno spazio amorfo oltre le nostre dita e la nostra pelle, oltre il nostro essere corporeo. È diverso dall’aria che inspiriamo ed espiriamo ma che, immersi nelle nostre faccende, ignoriamo del tutto. L’ambiente è un meccanismo di attivazione costante, il cui impatto sul nostro comportamento non può essere ignorato.  […] un ambiente ci migliora, l’altro cancella le vibrazioni ‘buone’ come se non le avessimo mai percepite.»

In accordo con molti sceneggiatori e scrittori, Marshall Goldsmith e Mark Reiter suggeriscono di trattare l’ambiente come un personaggio in carne ed ossa, dandogli anche un nome, così da vedere con chiarezza con chi dobbiamo fare i conti.

(Non a caso esiste una folta letteratura, da Robinson Crusoe a The Beach e Into the Wild, che ha come contragonista, antagonista o coprotagonista l’ambiente.)

L’ambiente, quindi, influisce sui nostri meccanismi di attivazione, o interruttori, ma come?

Com’è che Tizio agisce x in modo y?

Alberto, Germana, Simone, Carola e io: cinque persone, cinque diversi interruttori e sei + sei diverse modalità di attivazione.

1. Attivazione diretta o indiretta

Tu e io stiamo discutendo al telefono. È una discussione particolarmente concitata e animata e ad un certo punto butti giù la conversazione, quel che si dice ‘mi sbatti la cornetta in faccia’.

Che io mi metta a piangere, mi attacchi al telefono e ti richiami allo sfinimento, esca di casa e venga ad appendermi al tuo campanello, faccia un bel respiro e decida di far passare la tempesta… ecco, qualunque sia la mia risposta, sarà una diretta conseguenza di un evento, di un input specifico.

Questo tipo di attivatore è facile da intercettare e proprio per questo risulta anche più facile da governare. Se non le prime volte, sicuramente nel tempo.

Dalla nostra discussione telefonica in cui mi hai sbattuto il telefono in faccia, facendomi rimanere davvero molto male, sono passati anni. Ma oggi avrei dovuto chiamare una persona per alcuni chiarimenti.

Chiarimenti poco piacevoli, forieri di conflitti e discussioni, ma alla fine non l’ho fatto. Ho rimandato a domani, o più probabilmente a mai più, perché il solo pensiero di trovarmi in una discussione accesa, per giunta a distanza, mi ha bloccata.

Questo è un esempio di attivazione indiretta: ‘l’ambiente’ chiarimento telefonico, dopo quella prima esperienza che ha creato l’interruttore nel nostro impianto emozionale, fa scattare il segnale “anche no, grazie”.

2. Attivazione esterna o interna

Rimanendo nell’esempio precedente, nel primo caso la mia risposta all’evento è una risposta diretta ed esterna, è cioè stata stimolata da ciò che è avvenuto fuori da me: il tuo buttare giù la conversazione.

Nel secondo caso, ovvero quando passati anni da quella nostra litigata telefonica io mi ritrovi a non riuscire ad affrontare anche solo l’eventualità di una discussione a distanza, e non con te, ma con chiunque, l’attivatore potrebbe scattare direttamente dal mio bagaglio di emozioni a registro, e dunque sarebbe interno.

3. Attivazione conscia e inconscia

Che io mi attacchi al telefono pretendendo di proseguire la conversazione fino alla risoluzione, o almeno di lasciarci in modo più garbato con la promessa di risolvere di persona non appena possibile, o che io faccia un respiro e lasci la presa aspettando un momento migliore per dare seguito al nostro chiarimento, se ho consapevolezza di ciò che sto facendo la mia è una risposta conscia.

È probabile invece che, passati gli anni, il rifiuto che oppongo nell’affrontare una qualunque conversazione difficile per via di quella vecchia litigata tra noi, non sia poi così consapevole.

In tal caso potrei raccontarmi, per esempio, che non ho tempo. Che non mi importa. Che un certo genere di relazione o comunicazione non facciano per me.

4. Attivazione prevedibile o imprevedibile

Se ti conosco da tempo e so che la tua modalità di relazione tende al conflittuale, la volta che mi chiudi la porta in faccia, mi mandi a stendere o mi sbatti giù la conversazione, non sarò certo colta di sorpresa e probabilmente avrò anche già una serie di risposte pronte all’uso, tra le quali non rispondere per niente.

Ma se non ci conosciamo bene, o ti ho sempre frequentata o frequentato in un contesto sociale poco confidenziale, o abbiamo sempre avuto una comunicazione molto garbata, rispettosa e calma, e tu d’improvviso mi aggredisci, o mi insulti, o mi esautori dalla relazione in modo totalmente inaspettato e per me nuovo, la mia risposta sarà imprevedibile.

5. Attivazione incoraggiante o scoraggiante

Potrei essere una testona senza precedenti, o un’orgogliosa della prima ora, o avere una personalità tignosa e sentire il bisogno di puntualizzare su tutto (che è anche un modo per avere l’ultima parola, quella che precede il segno di interpunzione che conclude un periodo); a quel punto il tuo rifiuto a proseguire la conversazione per me potrebbe essere addirittura un incoraggiamento a richiamarti fino allo sfinimento, o a venire sotto casa tua e attaccarmi al campanello.

Oppure, l’incoraggiamento a non lasciare cadere la conversazione, ma magari proseguirla in un altro contesto e tempo, potrebbe arrivarmi dall’ambiente relazione, ovvero da quanto per me è importante tutelare l’ecosistema del legame che ci unisce.

Potrei, all’opposto, sentirmi scoraggiata dal tuo gesto e non aver più cuore di proseguire la conversazione o la relazione con te.

6. Attivazione produttiva o controproducente

Per sintetizzare questa tipologia di attivatori, produttivi e controproducenti, prendo nuovamente in prestito le parole di Goldsmith e Reiter, perché sono perfette ed essenziali:

«Gli attivatori produttivi ci fanno fare un passo avanti nel percorso per diventare le persone che vogliamo essere. Gli attivatori controproducenti ci spingono indietro.»

Post Scriptum

Se, come sostengono Goldsmith e Reiter, gli interruttori sono un prodotto dell’ambiente, per non far scattare il meccanismo che li attiva è proprio dall’ambiente che bisogna partire.

Io lo faccio chiedendomi cosa di quel particolare ambiente mi faccia scattare l’automatismo controproducente, facendomi sentire stanca e appesantita a livelli parossistici, anche soltanto a pensarci; e dove, se non lì, mi sentirei invece leggera e in espansione.

Infine mi sposto. A volte, per non far scattare l’interruttore, mi è sufficiente fare un solo piccolo passo fuori dall’ambiente che lo attiva.

E una volta scongiurata la reazione condizionata, da fuori, prima osservo e poi scelgo: se rientrare e stare, e come; o se invece congedarmi e prendere tutt’altra direzione.

Ma perché una scelta sia buona davvero, non può essere fatta da altri che da noi in pieno governo della nostra storia.

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