Mann ist was er isst, o del lasciarsi divorare dall'interno

«L’uomo è ciò che mangia», scriveva nella seconda metà dell’Ottocento il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach.

Una frase che oggi capita spesso di trovare nell’incarto di un cioccolatino, o su un sito a tema nutrizionista o, ancora, su qualche portale che promuova scelte alimentari di tipo vegano o vegetariano.

Un concetto che il mio nutrizionista macrobiotico, Tamio Yagisawa, amava ribadire quasi a ogni incontro del percorso fatto insieme, in una formula ancora più eloquente:

«Se tu mangi maiale, diventi maiale. Se tu mangi pollo, diventi pollo, ma se tu mangi riso…»

E a quel punto il suo volto, sempre molto serio e a tratti impenetrabile, si apriva in un sorriso caldo e accogliente.

L’alimentazione non è il mio campo d’azione professionale. Presto una certa attenzione al tema, seguo con interesse alcuni studiosi e divulgatori del settore. Ma nella vita mi occupo più di cibo per l’anima che di cibo per il corpo.

E allora perché tirare fuori Feuerbach e la sua celebre frase?

Mann ist was er ißt

In tedesco, l’uomo è ciò che mangia, si traduce con: «Mann ist was er ißt», dove il verbo essere e il verbo mangiare, alla terza persona singolare, si distinguono soltanto nella forma scritta.



Il verbo essere infatti è scritto con una s; mangiare con una scharfes s, lettera presente unicamente nell’alfabeto tedesco che corrisponde a due s ravvicinate dal suono duro.

Vien da chiedersi se il filosofo tedesco non abbia voluto giocare apposta con questa assonanza per creare, quanto meno nella forma sonora, una sorta di frase palindroma a doppia lettura:

«L’uomo è ciò che mangia», ma anche «L’uomo mangia ciò che è»

Da una parte, dunque, ci potremmo dilungare in disquisizioni sull’importanza di nutrire la propria di vita di cibi, veri o metaforici, buoni e sani.

Dall’altra, potremmo invece entrare nella tematica del cannibalismo e dell’autofagia e soffermarci sulla tendenza dell’uomo a divorare sia i propri simili, l’«homo homini lupus» di Plauto, sia se stesso.



Il mito di Erisittone

Ci parla di autofagia il mito tessalico di Erisittone, un giovane benestante che disprezzava le divinità e non bruciava sugli altari mai nulla in loro onore.

Già inviso agli dèi per il suo atteggiamento irriverente, un giorno Erisittone pensa bene di aumentare il suo punteggio di impopolarità presso gli abitanti dell’Olimpo recandosi in un bosco sacro a Demetra per abbatterne gli alberi e costruire una nuova sala per i propri banchetti.

Demetra, dea dell’abbondanza, del nutrimento, dispensatrice di vita e felicità, per fermare lo scempio prende le sembianze di una vecchietta, si presenta a Erisittone, e con voce carezzevole lo invita a fermarsi: 

Erisittone, sordo alle richieste della dea, caccia la vecchia in malo modo.

Demetra, te lo puoi immaginare, non la prende benissimo. E come spesso accade agli dei quando s’incazzano come bisce, scatena il suo lato oscuro e getta sul giovane la più terribile delle punizioni: la fame eterna e insaziabile.

Il mito procede nel racconto di Erisittone che, roso dai morsi della fame, in breve tempo divora tutto ciò che gli è possibile divorare fino a dilapidare l’intero patrimonio della sua nobile e ricca famiglia.

Persa ogni risorsa, sempre più magro e famelico, per liberarsi dalla maledizione a Erisittone non rimane che un’ultima tremenda soluzione finale: cominciare a divorare le sue stesse carni.

Divorare se stessi

Miti, leggende e fiabe sono sempre plausibili di diverse interpretazioni.

Di mio, quando guardo al mito di codesto giovane punito per non aver reso onore agli dèi, ci vedo un collegamento con il concetto di daimon platonico: l’essenza divina che custodisce i doni, i talenti e la missione, o chiamata, degli uomini.

Ci vedo quel che succede a tutti noi nel momento in cui non rendiamo il giusto onore alla storia unica e irripetibile che siamo chiamati a realizzare attraverso i doni e i talenti che ci sono stati dati.

La storia di Erisittone sembra infatti volerci ricordare che quando disonoriamo e disattendiamo i messaggi del nostro daimon, finiamo con il fare a brandelli la nostra storia, con il «mangiarci», come si usa dire, non a caso, le possibilità e le opportunità che la vita ci offre.

Indifferente agli dèi, e quindi al suo stesso daimon, Erisittone si risolve a depredare le proprie risorse sacre  per farne un banchetto, condannandosi così a una fame eterna e senza fondo.

Lasciarsi divorare

A confermare la presenza di questo meccanismo di autofagia nella nostra vita di tutti i giorni, ci sono alcune espressioni di uso comune, come:

«Sono divorato dalla paura di…»

Seguito a scelta da verbi tipo: fallire, sbagliare, perdere…

Oppure:

«Sono divorato dal rimorso per...»

Non aver fatto, detto, provato. Hai notato? Ri-morso, anche questa, mi sa, non è una parola casuale.

E infine, la ciliegina sulla torta:

«Sono divorato dal desiderio di…»

Ma se un desiderio arriva a divorarci, quanto lo stiamo affamando il poveretto?

Lo stesso possiamo dire per la paura e per i rimorsi: se ci divorano è perché hanno fame. Sarebbe preferibile, però, che li nutrissimo con qualcosa di diverso dalla nostra stessa carne.

Potremmo, per esempio, offrire alla paura una doppia porzione di ascolto. Presentare ai rimorsi un bel vassoio di iniziative appena sfornate.

Che ne dici, da oggi si cambia menù?

Prova settimanale dell’eroe

Questa settimana ti propongo  di prestare attenzione ai morsi della fame della tua anima ponendoti principalmente sue domande:

  • qual è il sentimento che mi sta divorando?
  • come posso nutrirlo per renderlo un alleato nella conquista della mia felicità?

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