Cosa ricordi dell’ultima volta in cui ti sei sentitə estremamente arrabbiatə?

L’ultima volta che è accaduto a me, ci ho ruminato su per almeno una settimana, e ancora oggi, quando ripenso a quell’episodio, mi sento molto a disagio per come ho reagito.

Non immaginare chissà quale mattana: non è nel mio stile alzare la voce o assumere atteggiamenti particolarmente aggressivi o violenti. Piuttosto, quando sono arrabbiata, reagisco con biasimo, e dopo aver comunicato il mio disappunto e la mia disapprovazione, di solito esco di scena e sparisco dalla circolazione anche per mesi.

Questa cosa dello sparire, che alcune persone interpretano come una sorta di rivendicazione all’offesa, è in realtà espressione proprio di quel disagio di cui scrivevo poco sopra. Arrabbiarmi fino al punto di non essere più in grado di relazionarmi come vorrei che le persone si relazionassero sempre  le une con le altre – vale a dirsi con amorevolezza, accoglienza ed equanimità –, mi fa sentire una brutta persona: una persona inadeguata, incompetente, vulnerabile. Ed è questo, alla fine, a farmi arrabbiare per davvero.

I fumi della rabbia creano sempre illusioni ingannevoli nelle nostre storie: come persuaderci che all’origine della nostra ira ci sia l’altro, con le sue malefatte e i suoi comportamenti inaccettabili.

Quando però riusciamo a spengere il fuoco della rabbia, e la cortina fumogena comincia a diradarsi, scopriamo in fretta che all’origine della nostra collera ci siamo noi, o meglio, le nostre narrazioni dominanti.

Questo breve saggio parla proprio di loro, dei castelli narrativi che sostengono la nostra rabbia, e di come possiamo fare per non restarci chiusi dentro.

Minacce, paure e rabbia

Nessuna delle esperienze che facciamo possiede un valore di per sé fisso: siamo noi a etichettare come “buono” ciò che ci piace e riteniamo desiderabile e benefico, e come “cattivo” ciò che non ci piace e consideriamo sgradevole e potenzialmente dannoso.

E questo spiega per esempio come mai le situazioni e gli eventi che fanno molto arrabbiare una persona, ne lasciano del tutto indifferente un’altra; o perché al racconto di unə amicə infuriatə per qualcosa, o di fronte a una sua reazione rabbiosa, aggressiva o stizzita, può succedere di pensare: «Che esageratə!»

E come assegnamo questi valori? Seguendo una precisa, per quanto inizialmente improvvisata, strategia di sopravvivenza (o strategia reattiva).

Una strategia reattiva è una sorta di apparato difensivo (o preventivo) in grado di proteggerci dalla minaccia più incombente e di rassicurarci nella nostra paura dominante: vale a dirsi la paura che più di tutte ci atterrisce, ci rende vulnerabili e ci espone al pericolo.

Nonostante la lista delle minacce e delle paure possa variare, intensificarsi o snellirsi da persona a persona, tutte le minacce e le paure possono essere inscritte in tre categorie.

Le tre categorie di minaccia/paura

1. Minaccia/paura per la propria sopravvivenza immediata (qualcosa che metta in serio pericolo il bios, la vita stessa: come un’aggressione per esempio, o anche un errore fatale, un fallimento, un difetto, il non avere il pieno controllo di una situazione)

2. Minaccia/paura per la sopravvivenza futura (qualcosa che oggi come oggi non ci mette a rischio vita, ma che nel suo protrarsi e protendersi nel tempo può minacciare la nostra esistenza nel suo complesso: restrizioni, costrizioni, mancanza di informazioni e di competenze adeguate, manipolazioni)

3. Minaccia/paura per il mancato riconoscimento sociale (qualcosa che metta cioè a rischio il bisogno primario di nutrimento affettivo, di relazione e di protezione)

Rabbia di cuore, rabbia di testa e rabbia di pancia

La strategia reattiva che mettiamo in atto quando vediamo minacciata la nostra immediata sopravvivenza è istintiva, muscolare, viscerale: è il mors tua vita mea, il «fighting to survive in a world with the darkest powers».

Questa strategia genera di solito una rabbia che potremmo definire di pancia: spesso avventata, sproporzionata ed eccessiva.

La strategia per la quale optiamo per garantirci la sopravvivenza futura è invece mentale, analitica e intellettuale. È poco offensiva, anzi all’offensiva arriva soltanto in ultima istanza, e solo se inevitabile. Insomma, se questa è la nostra strategia reattiva, prima di pensare alle bombe,  pensiamo a scavare una trincea e a erigere un muro di cinta; e all’avventarsi urlante sul nemico prediligiamo un cavallo di Troia.

Questa strategia genera di solito una rabbia che potremmo definire di testa: ruminante, inesorabile, ripiegata.

Infine, la strategia alla quale ci affidiamo per assicurarci nutrimento affettivo quando sentiamo che questo ci è stato negato o tolto, è emotiva: provoca cioè le nostre emozioni fino a esasperarle. Pianti, melodrammi, sceneggiate, musi lunghi, risentimento, autolesionismo: tutto pur di riportare su di noi l’attenzione. Tutto per non permettere all’altro di dimenticarsi di noi o di dimenticare la propria colpa. Anzi, fargliela espiare il più a lungo possibile quella colpa: poiché finché l’altro ci è in qualche modo debitore, abbiamo ancora – con lui o lei – una relazione, e non possiamo essere messi da parte.

Questa strategia genera di solito una rabbia che potremmo definire di cuore: disperata, drenante, avvilente.

Tu come ti arrabbi: di cuore, di testa o di pancia?

Infografica su sfondo blu che riassume le caratteristiche delle tra rabbie in altrettante tavole
Clicca qui per scaricare l’infografica che riassume gli inneschi, le reazioni e le specifiche domande legate alla rabbia del cuore, della mente e del corpo.

Valori, emozioni, reazioni

Secondo lo psicologo Albert Ellis, il meccanismo di creazione dei nostri valori si può sintetizzare così: dopo aver valutato specifiche esperienze (A) ed esserci creati delle convinzioni in proposito (B), le nostre convinzioni in proposito determineranno i sentimenti e i comportamenti (C) che, da questo momento in poi, assoceremo a quelle specifiche esperienze.

In uno schema semplificatorio:  A ⇾ B ⇾ C

La caratteristica sulla quale vale la pena soffermarci un momento riguarda le convinzioni le quali,  essendo per la maggior parte condizionate dalla nostra paura dominante, non possono essere vere per tutti o universalmente verificabili. Non per nulla queste convinzioni vengono anche definite: credenze.

Le credenze che generano in noi rabbia sono per lo più dogmatiche: trasformano cioè le nostre aspirazioni in necessità indispensabili, le nostre preferenze in pretese, e i desideri soggettivi in imperativi oggettivi e assoluti.

Per averne una prova, ci basterebbe porre maggiore attenzione al linguaggio che adoperiamo nelle manifestazioni della nostra rabbia:

• «Non devi mai più permetterti di comportarti in questo modo con me!» urla la rabbia viscerale. E condisce: «Visto che ti comporti come non devi, sei una pessima persona che ha bisogno di una bella lezione»

• «Non posso accettare il tuo comportamento superficiale e irresponsabile!» chiosa la rabbia mentale. E intanto, sotto sotto, sentenzia: «Siccome ti comporti in modo superficiale e irresponsabile, sei una persona approssimativa e inaffidabile, indegna della mia fiducia; e se non mi posso fidare di te, non posso farti entrare nel mio cerchio»

• «È terribile che tu mi faccia questo! Cosa ho mai fatto per meritarmelo?!», recrimina tra i singhiozzi la rabbia del cuore. E implora: «Dato che sei una persona insensibile che mi ferisce così profondamente senza curarsi dei miei sentimenti e bisogni, adesso stai qui e mi dai almeno una spiegazione!»

Con queste narrazioni dominanti così trancianti e perentorie, riesci a immaginare cosa accada dentro di te quando a superare il limite, a comportarti in modo egoista e irresponsabile o a ferire profondamente qualcuno, sei tu?

Rabbia, doverizzazioni e terribilizzazioni

Il linguaggio della rabbia è dunque caratterizzato da frasi come: non devi, non puoi, è terribile.

Albert Ellis le chiama doverizzazioni e terribilizzazioni, ovvero le due distorsioni cognitive che più di altre sono in grado di scatenare la nostra rabbia di cuore, mente o pancia, e di mandare in fumo relazioni e progetti.

Doverizzazioni e terribilizzazioni che naturalmente non riserviamo soltanto alla rabbia che indirizziamo al prossimo, e nella relazione con l’altro, ma che utilizziamo ampiamente anche quando la rabbia la rivolgiamo a noi stessi, e la relazione è con le parti di noi.

Secondo lo scomparso psicologo, esistono tre grandi categorie di doverizzazioni e terribilizzazioni:

• doverizzazioni e terribilizzazioni che generano ostilità, tipiche di chi si abbandona a una rabbia di pancia
(«Dovete trattarmi con rispetto e riguardo!» / «Questo è troppo!»)

• doverizzazioni e terribilizzazioni che generano ansia, di casa per chi vive la rabbia di testa
(«Si deve: saperne di più e meglio, scegliere bene, assicurarsi un futuro!» / «È terribile che io: non lo sapessi, mi sia sbagliata, mi sia dimenticatə, non abbia verificato, mi sia fidatə»)

• doverizzazioni e terribilizzazioni che creano bassa tolleranza alla frustrazione, ben conosciute a chi si fa prendere dalla rabbia del cuore («Le condizioni devono essere come voglio io!» / «È terribile quel che mi sta succedendo!»)

Come le doverizzazioni e le terribilizzazioni sostengono la tua rabbia e danno alle fiamme le tue relazioni, le tue possibilità e il tuo futuro

Se devi sempre dimostrare di essere impeccabile, perfettə, più forte e sicurə degli altri; se devi assicurarti di non essere mai gregariə o respintə: quanto potrà essere funesta la furia che rivolgerai a te stessə quando i tuoi risultati saranno buoni ma non eccellenti; quando perderai qualche colpo; quando non avrai il pieno e totale controllo della situazione; o non riuscirai a entrare in un progetto, in un gruppo, nel ”giro giusto”?

E quanto sarai dispostə a provarci, a rincorrere i tuoi sogni e a investire nei tuoi progetti se l’idea che hai di te è quella di una persona sempre troppo poco competente, mancante e dubbiosa: forse poco o niente considerato che una persona con tali caratteristiche rischia di essere troppo instabile e inaffidabile per progetti tanto importanti?

E se nonostante la tua totale dedizione, il tuo impegno, il tuo talento, i tuoi sacrifici e le tue rinunce, non dovessi ottenere tutto quello che vuoi, nei tempi che vuoi tu, cosa faresti dei tuoi sogni e dei tuoi progetti? Li butteresti al macero perché «o è come voglio che sia, o niente!»?

Fare un editing alle narrazioni che mandano in fumo il futuro

Scrive Lisa Cron in Story or die che l’essere umano è portato a credere molto più alla storia che ai fatti, e come abbiamo potuto constatare fin qui, doverizzazioni e terribilizzazioni sono degli storyteller inesauribili e infaticabili, il cui lavoro produce effetti nient’affatto desiderabili.

Se è vero che non possiamo fermare la fabbrica di storie  in cui siamo immersi, né quella che abbiamo in testa, lo è altrettanto che possiamo scegliere  a quali credere.

Nelle narrazioni che riguardano la nostra rabbia, e nelle storie che le accompagnano, possiamo per esempio individuare da quale writing room arriva la sceneggiatura che guida le nostre azioni: dalla stanza dell’ideologia e delle strategie reattive, o dalla stanza della fenomenologia e della consapevolezza?

Da dove arriva questa narrazione?

Quando la sceneggiatura arriva dalla stanza delle strategie reattive, a dettare le nostre battute e le nostre azioni sono gli imperativi categorici; le credenze; le storie che non lasciano spazio al contraddittorio, ad altri punti di vista o a domande o dubbi che non siano recriminatori e giudicanti.

In questo caso il conflitto è polarizzato e l’azione è tutta spostata sullo stabilire chi abbia torto e chi ragione, chi sia il cattivo e chi il buono; chi sbagli e chi faccia giusto.

Se invece la sceneggiatura arriva dalla stanza della consapevolezza, la rabbia può presentarsi comunque, certo, ma l’azione che ne consegue non sarà rivolta a stabilire chi abbia ragione o torto, chi sia buono o cattivo, chi faccia bene o male – e quindi, come si diceva poco sopra, a trasformare le nostre aspirazioni in necessità indispensabili, le nostre preferenze in pretese, e i desideri soggettivi in imperativi oggettivi e assoluti –, ma a trasformare i punti esclamativi delle nostre narrazioni in punti di domanda.

Conclusioni

Che sia di pancia, di testa o di cuore, impara a individuare e a distinguere le narrazioni che sostengono la tua rabbia e a contestarne la veridicità e l’insindacabilità, chiedendoti:

cosa rende così terribile questo torto che ho subito?

• perché non posso sopportarlo?

• da quale delusione, rimpianto o frustrazione sta cercando di proteggermi questa mia strategia reattiva?

Se hai già provato a rispondere a queste domande ma qualcosa ancora ti sfugge e proprio non riesci a placare la tua ira funesta, facciamoci due chiacchiere: da qui a luglio ho cinque slot disponibili per una  consulenza breve e gratuita. Puoi prenotare il tuo slot preferito direttamente dal calendario qui sotto.