Prima settimana di questa fase 2.
Il momento del: «Qualcosa dovrà davvero cambiare, e non solo per ora; tuttavia non mi è ancora chiaro cosa». E del: «Mi sento completamente sfasata».
Le parole sono metamorfiche in più accezioni. Da una parte possono agire un’influenza così potente da cambiare il mondo; dall’altra possono suonare uguali all’orecchio di tutti, mentre nell’anima vibrano per ciascuno in modo diverso.
Per dire: la mia paura non è la tua paura; il mio dolore non è il tuo dolore; il mio entusiasmo non è il tuo entusiasmo.
E così vale anche per lo sfasamento: il mio e il tuo non sono identici.
Identici no, però abitano lo stesso spazio.
C’è sempre un punto d’incontro tra le parole che usiamo per descrivere gli stati dell’animo e le vibrazioni che producono in noi, intesi come noi tutti.
È il punto che ci permette di scambiare e capirci, di starci simpatici o antipatici, di entrare in empatia oppure in rotta di collisione.
Il mio e il tuo sentirci fuori fase, per esempio, s’incontrano sulla soglia: perché è quello il punto nevralgico dello sfasamento.
Come sai che se cerchi il pacco del latte aperto lo trovi in frigo, così sai che se sei davanti a un grande elettrodomestico dal quale arrivano luce e una ventata di fresco, per giunta pieno di pacchi di latte aperti, c’è il 99% percento di possibilità che tu sia di fronte a un frigorifero.
Per lo sfasamento vale lo stesso: quando ci sentiamo sfasati, siamo sicuramente a una soglia; e quando siamo a una soglia, possiamo ben aspettarci di venire prima o poi travolti, se già non è successo, da una sensazione di sfasamento.
È proprio come nello schema del viaggio dell’eroe.
Quando c’è qualcosa di più grande di me o che percepisco come tale, quando ho bisogno di spiegarmi una situazione, di indagare una scelta, o di riprendere in mano il filo della mia storia, tiro fuori carta e penna e disegno questo:
È lo schema base del Viaggio dell’eroe secondo la riduzione in grafica di Chris Vogler
Per molti è solo uno strumento per scrivere meglio. Per me è come lo stetoscopio del medico, la motozappa dell’agricoltore, la macchina da cucire della sarta o il test di Rorschach dello psicologo: è il mio “mai più senza”, nella vita come nel lavoro.
Lo schema di base del Viaggio dell’eroe ci aiuta a mettere in ordine i pezzi disordinati del nostro racconto, che sia personale o collettivo.
Ci racconta che nel viaggio della vita si aprono e si chiudono costantemente cerchi, o cicli di racconto, in un loop che dura dal primo all’ultimo respiro; e prima o dopo di questi, be’ chissà.
In questo loop ripetitivo nella struttura ma non uguale a se stesso nel contenuto, esistono dimensioni molto ben delineate:
• la dimensione ordinaria, vale a dirsi il mondo come lo conosciamo finché non interviene un punto di rottura, o un evento scatenante non lo sconvolga
• la dimensione straordinaria, il mondo nuovo, sconvolto, post apocalisse (che non ha nulla a che vedere con la catastrofe, bensì con la scoperta)
E tra queste: setacci, varchi, filtri, porte, portali. In una parola: soglie.
Ti ricorda qualcosa?
Una cosa tipo questa, forse?
Quando è esplosa la pandemia, il mondo così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi settanta e passa anni è cambiato.
Il Covid 19 ha interrotto un’ordinarietà fatta di certe abitudini individuali, sociali e culturali.
Ci ha messi metaforicamente alla porta senza però darci alcuna indicazione su cosa avremmo trovato una volta usciti da lì, dal nostro ordinario.
«Figlio del mondo, – ha detto – adesso o si cambia solfa, o si soccombe!»
E noi, ancora increduli, abbiamo risposto: «Sì, ok, si cambia solfa… ma qual è l’alternativa? E che vuol dire si soccombe, alla lettera?»
Eccolo il momento in cui ci si sente sfasati, che è l’opposto del sentirsi allineati con la fase della storia in cui siamo.
Fase deriva dal greco phasis che significa apparizione, e da phainomai che significa «io mi mostro».
Una fase, dunque, inizia nel momento in cui, nella storia, appare un nuovo elemento di portata significativa che mostra qualcosa che prima non c’era, o non era immediatamente visibile.
Uno sfasamento lo si ha invece quando, dopo l’apparizione, ci si ostina a rispondere alle nuove istanze con vecchie soluzioni.
Ogni autore sa che se il suo eroe non cambia, soccomberà alla storia.
Il che, nella migliore delle ipotesi, può voler anche solo dire che – almeno fino al prossimo evento scatenante – rimarrà intrappolato nello spazio della soglia: immobilizzato dal senso di sopraffazione che impedisce di fare quel passo oltre e superarla; o incapricciato sul senso di ingiustizia che lo trattiene e lo convince a fare della soglia una trincea.
Che è una fossa, alla fine; non un posto da cui si riesca ad avere una gran visione di insieme o un panorama granché ampio.
Soccombere, e magari rimanere intrappolati in un immobilismo cosmico per anni, o cambiare: questo è il bivio di fronte al quale ci troviamo quando siamo sfasati.
E se per cambiare c’è bisogno di rispondere con nuove azioni, nuove idee e nuove abitudini, allora ogni soglia porta con sé un invito ben preciso: «Dimentica ciò che già sai e fai spazio a ciò che ancora non sai»
Un invito super intrigante per almeno una parte del cervello, quella naturalmente portata alla curiosità, alla ricerca e alla scoperta.
La scienza però ha voluto che quella non fosse l’unica parte del cervello a supportare i nostri pensieri. Ne abbiamo infatti un’altra che non vuole saperne di novità, che non è affatto interessata a sorprendersi e tende piuttosto all’autoconservazione, alla ridondanza, al conosciuto, al sicuro.
Nel suo libro Limitless, Jim Kwik, l’allenatore della memoria, scrive una cosa parecchio interessante a proposito dell’attaccamento alla propria esperienza pregressa e a ciò che già conosciamo, e cioè che molte delle persone che mostrano maggiore attaccamento all’esperienza che già hanno fatto («Lo faccio in questo modo da 20 anni», «Vivo qui da tutta la vita», «Sono trent’anni che compro lo stesso marchio di pasta»), spesso potrebbero vantare giusto un solo anno di esperienza ripetuto per venti volte.
Detta in altri termini: nella soglia ci si potrebbe vivere anche per decenni, pensando di aver vissuto 30, 40, 50… anni, e un bel giorno potremmo risvegliarci e scoprire di aver solo reiterato il medesimo anno per un tot.
Oh, wait… Non è la storia che voglio scrivere!
Morale della favola: non ci sarà nessuna fase 2, 3 o 1400 finché non ci si porterà oltre la soglia.
Non ci sarà nessuna fase due finché non si rischierà un passo in avanti, personale prima di tutto e poi, di conseguenza, collettivo. Non ci sarà una fase 2 fintanto che non si smetterà di reiterare la fase 1.
Quando sono sfasata e non riesco proprio a liberarmi dall’immobilismo a cui mi lega la permanenza sulla soglia, prendo carta e penna, disegno lo schema del viaggio dell’eroe e poi mi chiedo:
- com’era il mondo prima di adesso?
- come mi sento rispetto ai mutamenti?
- cosa ho bisogno di cambiare per sentirmi meglio?
- cosa ho bisogno che succeda per sentirmi meglio?
- quali nuove risorse posso tirare fuori perché succeda?
Lo schema lo hai. Le domande della soglia, pure. Ora tocca a te prendere in mano la penna e scrivere il prossimo capitolo di questa storia.