tecnica di journaling per il successo

Dalle scuole medie in poi, ho sempre tenuto un diario.

L’ho fatto con più o meno costanza a seconda dei periodi, ma non ricordo, in trent’anni, fasi in cui abbia completamente abbandonato la scrittura diaristica.

Ricordo invece benissimo tutte le situazioni in cui non ho potuto fare a meno di fissare su carta pensieri, memorie, riflessioni, e  anche tutti gli incontri interessanti in termini di saggi, manuali e tecniche.

Di questi incontri, soprattutto tre sono stati per me particolarmente rivelatori e metamorfici:

  1.  La via dell’artista, un metodo-percorso scaturito dalla penna di Julia Cameron
  2. The secret life of pronouns, dello psicologo James Pennebaker
  3. At a journal workshop, dello psicologo Ira Progoff

Tra loro, dopo di loro e prima di loro, altre letture a tema scrittura di sé hanno lasciato in me una suggestione, un’impronta, un piccolo insegnamento. Tuttavia questi tre rappresentano le preziose pietre miliari del mio percorso, umano e professionale, nella scrittura, e a chiunque si dimostri interessato ad approfondire io consiglio loro prima di tutti e su tutti.

Perché scrivere un diario?

Le ragioni che ci spingono a tenere un diario sono tantissime.

Spesso si principia quando le emozioni che ci abitano sono troppo ingombranti, vivaci e irrequiete da poter essere contenute tutte nello spazio interiore che abbiamo a disposizione.

Il diario diventa quindi una sorta di soffitta, un garage, una succursale del nostro mondo emotivo.

Alcune volte si comincia perché abbiamo bisogno di un confidente silenzioso che non si senta in dovere di prodigarsi in consigli, soluzioni o assoluzioni, ma semplicemente ci sia, stia e ci ascolti quando serve.

C’è chi si procura un diario per tenere traccia di un viaggio, sia esso un viaggio propriamente detto, o uno metaforico. Fa così, per esempio, chi tiene un diario dei propri sogni e chi in un diario raccoglie gli eventi più significativi per sé o per la sua famiglia.

Mio nonno Giuseppe, per esempio, era tra questi. In una piccola rubrica tascabile che conservava nel cassetto del comodino avvolta da un fazzoletto ormai consunto, fazzoletto che aveva rubato dal bucato a mia nonna quando ancora non erano nemmeno fidanzati, raccoglieva le date delle nascite, degli spostamenti, degli acquisti importanti, dei matrimoni, dei decessi, con una piccola notazione a fianco.

In quella scrittura pulita, tutta piegata a destra come se un vento forte avesse spinto verso il rigo ogni lettera, nonno Giuseppe fissava le tappe fondamentali per il suo clan, quasi temesse che un giorno qualcuno potesse portargliele via.

Si scrive per ricordare ma anche per dimenticare

Come quando scriviamo una lettera d’addio e consegniamo alle pagine dei nostri quaderni intimi un dolore troppo forte da tenere dentro.

Scriviamo per capire: come se le parole che abbiamo in testa, portate sulla carta, diventassero finalmente leggibili, chiare, parlanti.

Un diario lo si scrive anche per tracciare un percorso. Oggi lo si fa tipicamente con quello che chiamiamo bullet journal, pensando che un diario a punti o una tabella di tracking delle abitudini sia cosa dei nostri tempi.

Invece, uscendo appena appena dalla nostra bolla di egocentrismo e adessocentrismo, scopriamo che Benjamin Franklin (sì, proprio quel Ben lì, uno dei multipotenziali più famosi della storia, pari forse al solo Leonardo per fama e citazioni), una volta sfoderata la lista delle 13 virtù  ha cominciato a segnare su un taccuino i progressi, i successi e i fallimenti nell’agire tali virtù ogni giorno.

Non solo. Per mantenersi virtuoso, Franklin sviluppò persino una vera e propria tecnica di journaling che consisteva nell’iniziare la giornata chiedendosi:

«Cosa posso fare per il bene (collettivo, n.d.r.), oggi?»

Pare che riflettere su questa domanda lo aiutasse a pensare a come avrebbe potuto rendersi utile ai suoi simili, giorno dopo giorno.

Ma un obiettivo rimane un’intenzione se non c’è la prova provata che qualcosa sia stato fatto nella sua direzione, così, ogni sera, il vecchio Ben non andava a dormire prima di aver risposto, nero su bianco, a un’altra domanda:

«Cosa ho fatto di buono oggi?»

Esiste, ed è in vendita, un diario precompilato con le virtù e le tecniche di journaling di Benjamin Franklin. Se proprio non puoi fare a meno di possederne una copia, lo trovi qui.

Altri grandi donne e uomini, dal passato al presente, sono stati, come Benjamin Franklin, folgorati dall’utilità della scrittura diaristica.

Tenere un diario cambierà la tua vita in modi che non avresti mai immaginato

Pare lo abbia detto Oprah Winfrey in una qualche intervista a un giornalista che le aveva chiesto quale fosse il segreto del suo successo.

Ora, non credo che tenere un diario rappresenti la condicio sine qua non per il successo, credo però che – al netto della mia esperienza personale, di quella professionale e di tutte le ricerche scientifiche che ne dimostrano l’efficacia come strumento di consapevolezza e sviluppo (ti consiglio, se vuoi approfondire, la lettura di questo saggio) – valga la pena provare a farlo.

Magari sperimentando tecniche diverse, anche non consolidate ma che, intuitivamente, pensi possano servire il tuo scopo.

Da un meraviglioso manuale dal titolo oltremodo esplicativo, L’arte delle liste, ho saccheggiato per esempio questi suggerimenti di liste per riflettere sull’uso che faccio del mio tempo:

• occupazioni che richiedono la maggior parte del mio tempo

• tempo di cui godo dei miei beni materiali e tempo che utilizzo per acquistarli

• i ladri di tempo

Questi tre spunti, in un modo o nell’altro, anche non necessariamente sotto forma di lista se ho bisogno di ricamarci di più intorno, rientrano sempre nelle pagine del mio diario dedicate alle riflessioni di fine mese.

Così come ogni sera mi premuro di rispondere a una domanda molto frankliniana, per quanto tarata su una suggestione che mi appartiene di più.

Ho fatto del mio meglio? 

Quando qualcuno parla di diario si immaginano quasi sempre pagine e pagine scritte fitte fitte.

Abbiamo visto però che possiamo chiamare diario anche brevi annotazioni che tengano traccia di piccoli eventi topici, e sappiamo che esistono i cosiddetti diari quinquennali il cui merito principale è insegnarci, o quantomeno allenarci alla sintesi (arte in cui non sono sempre fortissima, per la  verità).

Nonostante la profusione di tecniche che ho accumulato negli anni, quel che sentivo mancare alla mia routine di grafomane e utilizzatrice pro di diari, era uno strumento di scrittura diaristica che si collocasse a metà tra l’obiettivo e la meta, tra le buone intenzioni della mattina e la resa dei conti della sera.

Uno strumento quotidiano, snello, da usare insieme (ma che andasse oltre) alla spunta nel passaggio tra una voce e l’altra della mia to do list.

Mi sono accorta, infatti, che spesso le voci nella lista delle cose da fare rimanevano da spuntare senza che sapessi spiegarmi bene il perché.

Lavorando da sola e gestendo in totale autonomia tutto ciò che riguarda il mio business, dalla burocrazia alla comunicazione passando attraverso Illustrator e WordPress, sono obbligata a migrare, come molti freelance e autonomi come me, da una task all’altra senza soluzione di continuità.

Cosa che dal cervello viene vissuta come una forma di multitasking e quindi fortemente ostacolata e rigettata.

In principio fu il pomodoro

La nota tecnica dei 25 minuti di super focus e dei cinque di pausa prima di cominciare un nuovo sprint.

Ma se, per esempio, scrivo questo post, 25 minuti mi bastano giusto giusto per trovare un titolo che mi piaccia (be’, forse così è un po’ esagerato), e in ogni caso, una volta finito, i 5 minuti di pausa prima di passare al compito successivo non mi sono sufficienti nemmeno per disincastrare le gambe, sempre incrociate in posizione del loto, e portarmi in bagno per una pipì.

Di sicuro, fare pipì, bere un bicchier d’acqua, alzarmi e sgranchirmi, non sono attività che bastino al mio cervello per chiudere un fascicolo e passare a quello dopo.

Per fortuna è arrivato il diario transitorio!

Il diario transitorio funziona così: quando finisco una task, dopo aver sgranchito le gambe, bevuto un bicchier d’acqua e fatto pipì, mi prendo del tempo per scrivere tutte le osservazioni e le suggestioni che mi arrivano dal compito appena concluso. 

Posso scrivere per esempio: «Ho pubblicato il post sul diario transitorio, mi piace! Mi è venuto in mente che potrei fare un webinar sul diario ad uso e servizio del biz ⇒ rileggere gli appunti del seminario di De Bono ⇒ controllare cosa c’è già in giro ⇒ quale sarebbe il mio valore aggiunto?»

Cosa cambia scrivere o meno un’outro (una chiusa) task dopo task?

I pensieri (sul webinar, sul seminario di De Bono, sulla ricerca di mercato, sulla mia proposta irrefutabile) una volta arrivati alla mente, restano. Come un rumore di fondo di cui non si riesce a cogliere l’origine e di cui non è facile sbarazzarsi.

Ogni pensiero a cui non si fornisce la giusta quantità d’attenzione (che per un pensiero equivale all’aria, non per nulla si dice: lasciar respirare le idee) sarà un pensiero che per non soccombere (soffocare) lotterà per prendersela da dove riesce. Tipicamente dallo spazio d’attenzione che ci è richiesto dedicare al pensiero/compito successivo.

Scrivere un diario transitorio è quindi un modo per passare da un compito a un altro senza debiti d’aria, sicuri di aver lasciato respirare a pieni polmoni le nostre idee, riflessioni ed emozioni.

I miei risultati

Da quando uso il diario transitorio:

  1. arrivo a sera molto meno stanca e provata,
  2. gestisco più facilmente gli imprevisti,
  3. sono più focalizzata e veloce
  4. affronto con maggiore fiducia le nuove sfide

Non ti resta che provare e vedere se funziona bene anche con te!

 

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