la pioggia di stelle una fiaba dei fratelli Grimm sul valore dell'ingenuità

C’era una volta una bambina, che non aveva più né babbo né mamma, ed era tanto povera, non aveva neanche una stanza dove abitare né un lettino dove dormire; insomma, non aveva che gli abiti indosso e in mano un pezzetto di pane, che un’anima pietosa le aveva donato. Ma era buona e brava e siccome era abbandonata da tutti, vagabondò qua e là per i campi fidando nel buon Dio.

Un giorno incontrò un povero che disse: «Ah, dammi qualcosa da mangiare! Ho tanta fame!» Ella gli porse tutto il suo pezzetto di pane e disse: «Che buon pro ti faccia!» e continuò la sua strada. Poi venne una bambina, che si lamentava e le disse: «Ho tanto freddo alla testa! Regalami qualcosa per coprirla» Ella si tolse il berretto e glielo diede. Dopo un po’ ne venne un’altra bambina, che non aveva indosso neanche un giubbetto e gelava; ella le diede il suo. E un poco più in là, un’altra le chiese una gonnellina ed ella le diede la sua. Alla fine giunse in un bosco e si era già fatto buio, arrivò un’altra bimba e le chiese una camicina; la buona fanciulla pensò: «È notte fonda, nessuno ti vede puoi ben dare la tua camicia» Se la tolse e diede anche la camicia.

E mentre se ne stava là, senza più niente indosso, d’un tratto caddero le stelle dal cielo, ed erano tanti scudi lucenti e benché avesse dato via la sua camicina ecco che ella ne aveva una nuova, che era di finissimo lino. Vi mise dentro gli scudi e fu ricca per tutta la vita.

(La pioggia di Stelle, Jacob Ludwig Grimm e Wilhelm Karl Grimm)

Il mito della furbizia

Quando racconto la fiaba della Pioggia di stelle, la prima reazione è sempre di rifiuto: la protagonista è troppo ingenua e l’ingenuità non piace; né tantomeno piace l’idea di riporre fiducia nella provvidenza universale, così aleatoria e intangibile.

Se pensiamo a una persona ingenua, ci figuriamo qualcuno dal carattere sempliciotto, che si lascia facilmente trarre in inganno.  L’ingenuo è, nella migliore delle ipotesi, l’innocente o l’inesperto che non ha strumenti per difendersi dalla malizia del mondo; nella peggiore, il pollo da spennare o il merlo da truffare.

Nulla di che stupirsi: siamo tutti figli del «Fatti furbo!» e nel farci furbi, diventiamo ladri (da fourbir, francese, ripulire, privare il prossimo dei suoi averi): perché, narra la leggenda, è meglio spogliare l’altro prima che l’altro spogli noi.

La forza dell’ingenuo

La bambina protagonista di questa fiaba dei fratelli Grimm, prende quel poco che ha e lo dona a chi le pare abbia ancor meno di lei: un atto di generosità così tremendo nella sua spontaneità da rendersi quasi insopportabile.

Irridiamo all’ingenuo così come, la maggior parte delle volte, disprezziamo chi manifesta un potere creativo e generativo più potente del nostro. Infatti, se il furbo è colui che de-genera in un comportamento abusivo nei confronti del prossimo per trarne un qualche vantaggio, l’in-genuo è colui (o colei, il discorso vale per entrambi i sessi) che trova in sé la forza per dare vita al proprio potenziale (in-generare).

Con queste premesse, potremmo quindi dire che l’ingenuo si spoglia, e si lascia spogliare, di ciò che ha e di ciò che è stato perché crede al futuro più di quanto non creda al proprio passato.

L’ingenuo che move il sol e l’altre stelle

Scrive Arthur C. Clarke in Profile of the Future:

«The only way to discover the limits of the possible is to go beyond them into the impossible»
(L’unico modo per conoscere i limiti del possibile è superarli andando incontro all’impossibile)

Che è esattamente ciò che fa la bambina della Pioggia di Stelle. 

Dopo aver rinunciato al suo passato di abbandoni, privazioni e stenti, l’orfanella si ritrova nuda, quindi priva di preconcetti, al cospetto del firmamento: una nuova prospettiva che amplia l’orizzonte delle sue possibilità.

A questo punto della fiaba, una pioggia di stelle le cade letteralmente addosso, un modo incredibilmente poetico per raccontare come,  dismessa la storia (di famiglia), la bambina non si trovi più a essere piccola di fronte al mondo ma diventi adulta e feconda: è arrivato il momento in cui può considerare (con-sidera, stare con le stelle) un nuovo piano di realtà e rendersi autrice di una nuova vita. La sua.

Ma se l’ingenuità è così feconda, perché ne siamo tanto terrorizzati?

Il superpotere dell’ingenuo: chiedere

Siamo figli del nostro passato, non v’è dubbio. Ma siamo genitori del nostro futuro ed è su questo che abbiamo maggiore responsabilità, che come ho scritto qui è «abilità nel rispondere». Già, ma rispondere a che, se una delle facoltà a cui abdichiamo con più frequenza è proprio domandare?

L’ingenuo chiede. Chiedere, però, è uno dei più grandi tabù dell’umanità, un’interdizione sacrale: che non sia svelato il segreto degli dèi, o mal ce ne incolga! Un male non meglio identificato, ma è preferibile non rischiare.

Chiedere è addentrarsi oltre la soglia di un permesso, e le soglie, lo sappiamo, sono sempre protette da draghi spaventosi. I draghi che difendono i confini delle domande sono principalmente cinque (più una).

1. La paura di apparire stupidi

Passiamo la maggior parte del tempo a fingere di sapere cose che non sappiamo e a usare le energie che abbiamo a disposizione per nascondere o camuffare le nostre carenze di conoscenza. Iniziamo prestissimo, in età scolare, vergognandoci nell’alzare la mano e dire: «Non ho capito, me lo puoi spiegare un’altra volta?» Proseguiamo in età adulta assecondando un mondo che non capiamo e che spesso nemmeno ci piace.

2. La paura di sembrare deboli

Il sillogismo è: se chiedo, mi manca; se mi manca sono nel bisogno; se sono nel bisogno sono più sfigato o sfigata della persona alla quale mi sto rivolgendo.

Correlata alla paura di sembrare deboli, la paura di essere in debito di conoscenza o riconoscenza: se non ti chiedo nulla, non ti dovrò nulla; se non chiedo nulla, non sono in difetto.

Così, per esempio, lasciamo scivolare via persone che non vorremmo mai vedere allontanarsi perché in un «Resta!» c’è un bisogno, e in un bisogno la prova provata della nostra pecca.

3. La paura dell’umiliazione

Spesso, quando chiediamo qualcosa, incorriamo in risposte di:

rifiuto («No, perché non ti serve davvero!»);

dubbio («Sei sicura/o che sia davvero ciò che vuoi?», «Sei convinta/o che ti sia davvero utile?»);

verifica e controllo («Perché questa domanda/richiesta?», «Te lo meriti?»);

critica («Vorrei proprio sapere che bisogno hai di sapere sempre tutto?!») È come se dall’altra parte ci dicessero che quel che proviamo e sentiamo non ha valore.

Così ci siamo abituati che le domande accettabili, prima ancora di avere un senso per noi, è importante che incontrino il consenso degli altri.

4. La paura della punizione

Chiedere come sinonimo di pretendere, come manifestazione di egoismo. Chiedere, dunque, come peccato. E i peccati sono passibili di punizione. 

Chiedere non è rispettoso né educato: «Non devi chiedere!», ci insegnano da piccini, perché – probabilmente in un mondo parallelo che forse esiste, ma di certo non è questo – ciò che ti è dovuto ti sarà dato come per magia.

Tuttavia le magie richiedono maghi. E i maghi sono coloro i quali son capaci di formulare richieste affinché si compia il prodigio. Nessuna magia, infatti, si realizza senza l’intervento di un soggetto agente.

5. La paura dell’abbandono

Se chiedi, interrompi. Se interrompi, diventi fastidioso. Se diventi fastidioso (o fastidiosa, certo!), vieni epurato.

Il timore di venire allontanati è una delle paure che ci rende meno disponibili al cambiamento.

L’allontanamento, tuttavia, è – nel mondo straordinario delle fiabe, ma anche in quello ordinario in cui viviamo io e te – la condizione necessaria al processo evolutivo naturale. Lasciamo l’acqua per la terra. Ci allontaniamo da ciò che gli altri si aspettano da noi, per avvicinarci a chi siamo. Ci svestiamo dell’io del passato per far posto al sé del futuro.

Prova settimanale dell’eroe

Come spesso accade nelle fiabe, e come abbiamo visto in altre letture, i co-protagonisti dei mondi incantati incarnano le diverse istanze del protagonista. Le domande della bambina delle stelle, quelle che le servono per liberarsi dal passato e generare una nuova narrazione di sé, più ricca e feconda, si presentano anche in questa storia sotto forma di richieste avanzate dagli altri personaggi.

La prova settimanale dell’eroe è un invito a spogliarti di ciò che non ti serve più, per fare posto a ciò che potrebbe arricchirti.

Per farlo, puoi iniziare a lavorare su una domanda:

Se le tue istanze potessero chiederti di rinunciare a qualcosa del tuo passato per renderti autrice, o autore, del tuo futuro, cosa sarebbe?