Quando ho cominciato la rubrica Una storia di famiglia l’ho fatto pensando a uno degli esercizi più difficili in assoluto, in ambiente di scrittura, quando si devono costruire i personaggi, in particolar modo il protagonista e il suo antagonista: la stesura della biografia dei sentimenti.
La biografia dei sentimenti è una sorta di mappa delle emozioni, dei trigger (segnali o stimoli) e dei pattern (schemi ricorrenti) dei character di un prodotto di finzione. Affinché questi personaggi si muovano coerentemente tra gli avvenimenti della trama, la mappa deve essere oltremodo precisa e curata. È un attimo, infatti, che le azioni del protagonista risultino incongruenti tra loro e indeboliscano tutta l’architettura della storia.
La biografia dei sentimenti, rielaborata ad hoc a partire dagli strumenti dello sceneggiatore, è una tappa essenziale del mio metodo di coaching perché ognuno di noi, quando affronta una metamorfosi, non lo fa da zero, da materia grezza a cui dar la forma che si vuole, bensì da storia (da scrivere) con una storia (già scritta e vissuta alle spalle).
In principio è l’amore
Narra il mito a cui ognuno di noi ha bisogno di aderire, che la storia di ciascuno prende il via dall’amore. Il babbo e la mamma si amano e dal loro amore ecco nascere il frutto: tu, io, noi.
In realtà, questa è la migliore delle versioni possibili della nostra nascita, non necessariamente la più realistica e diffusa. L’amore, infatti, non è uno stato naturale tra coniugi, compagni, genitori e figli, fratelli. L’amore è una costruzione quotidiana che può riuscire oppure no.
Le volte in cui non riesce, il fondamento dell’amore viene a mancare alle basi dell’esistenza. E un amore che manca, conta. Conta perché ci danneggia. Così come ci danneggiano il disinteresse, la distanza e l’indisponibilità che un amore che non si manifesta o non si esprime porta con sé.
Le ragioni di questa deficienza possono essere molte e non sono argomento di questo post, e nemmeno un argomento in cui mi sentirei personalmente abbastanza ferrata da poterne discettare con tranquillità. Con le conseguenze, invece, ho a che fare spesso e mi sento di condividere con te ciò che ho osservato.
L’amore (an)negato
«Adoro mia sorella, ma il più delle volte la prenderei a sberle»
«Sì, non gli parlo da sei mesi, ma questo non vuol dire che non ami mio figlio»
«Lo amo, ma faccio fatica a proseguire in questa nostra vita insieme».
Quando parliamo d’amore, in particolare dell’amore che proviamo per il nostro o la nostra partner, per i nostri genitori, per i nostri fratelli e sorelle, usiamo spessissimo il “ma” avversativo. Fatichiamo cioè a riconoscere in queste figure d’amore l’alleato che vorremmo davvero avere accanto.
Il padre che ci ama, per forza perché è padre, ma ci abbandona o ci evita. La madre che ci ama, per forza perché è madre, ma ci ostacola o ci affama di attenzioni. Il fratello e la sorella che ci amano, per forza perché sono sangue dello nostro sangue, ma ci obbligano alla competizione e alla rinuncia. Il partner o la partner che ci amano, per forza perché ci hanno scelti tra molti, ma fuggono o ci tengono a distanza. Tutti loro dovrebbero, se le cose del mondo andassero come ce lo disegniamo, amarci «senza se e senza ma». E noi dovremmo amare loro altrettanto incondizionatamente. Eppure…
Eppure capita che coloro che da copione dovrebbero incarnare le figure d’accudimento e cura, in barba a qualunque legge di natura, non siano disponibili a impersonare quel ruolo.
Accade che una madre sia poco affettuosa e algida. Che un padre non riesca a trasmettere la sensazione di apprezzare e considerare speciale il proprio figlio. Che un fratello o una sorella non vogliano condividere lo spazio famigliare. Che un compagno o una compagna non siano disposti a dedicarsi abbastanza tempo e attenzioni.
Succede, ed è particolarmente importante se ciò avviene nell’infanzia e in quell’ambiente protetto che riteniamo debba essere la famiglia d’origine, casa, che vengano a mancarci affetto, sostegno, guida e attenzione.
Accade che la vita in cui veniamo catapultati sia particolarmente inadeguata a supportare i sentimenti d’amore; e in questa inadeguatezza l’amore annega insieme a un bel po’ degli strumenti che ci servirebbero per vivere un’esistenza appagante e serena.
Le conseguenze dell’amore negato
L’amore negato è un vuoto. Un vuoto che risucchia l’autostima, il senso di autoconservazione, la capacità di rispondere senza irrequietudine od ostilità alle sfide della vita, e la stessa capacità di dare e ricevere amore.
Chi ha subito una qualunque forma di deprivazione emotiva sa infatti come sia facile cedere a:
• comportamenti distruttivi (fumare, bere e mangiare smodatamente; rischiare la vita con la velocità, gli sport e le avventure estreme; giocare d’azzardo o tendere a investimenti folli…)
• sentimenti di autocommiserazione
• bassa autostima
• rabbia data dal senso di profonda ingiustizia che si avverte
• tentazione di ricacciare chiunque proponga una relazione che preveda intimità emotiva
L’amore negato è, purtroppo, un vuoto che si tende a rendere, a propria volta, con varie espressioni di indisponibilità verso di sé (indisponibilità alla vulnerabilità, all’errore e alla caduta, al manifestare i propri talenti), e verso gli altri (indisponibilità alla condivisione, all’intimità, al sano compromesso).
La difficile arte dell’accoglimento
Sono piuttosto convinta che il superamento dell’indisponibilità passi per l’accoglimento e che quest’ultimo sia legato indissolubilmente con l’accettazione la quale, a sua volta, trova un viatico nel perdono.
Perdonare chi ci ha privati dell’amore necessario, vitale, soprattutto quando quella mancanza ci ha colti in un momento della vita in cui non avevamo le parole per descrivere il dolore causato da quella privazione, non è impresa da poco, e nemmeno da un giorno. Ma è un’impresa possibile, e lo dico con cognizione di causa; per esperienza personale oltre che professionale.
Quando si parla di perdono, si tende ad assimilarlo a parole che di solito gli sono attribuite come sinonimo: assoluzione, clemenza, comprensione. Ma la parola perdono è formata da per, particella intensiva che indica un moto di espansione per attraversamento, e dal lemma donare che non ha certo bisogno di spiegazioni. Il perdono è dunque un donare attraverso qualcosa. E quel qualcosa siamo noi, sei tu, sono io.
Perdonare significa quindi donarsi attraverso le azioni: non privarci di ciò che siamo, e se c’è qualcosa di ciò che siamo che non ci piace, abbiamo mille e una occasione per migliorarci; e non privare neppure gli altri di ciò che potremmo portare (donare) nel mondo, ivi compresi i talenti e l’amore che possiamo creare a partire da un unico battito di quell’organo tanto eccezionale da trovarsi al centro dell’universo del nostro corpo. Perché finché il cuore batte, siamo vivi. E finché siamo vivi, val proprio la pena vivere.
Prova settimanale dell’eroe
Che tu ti sia riconosciuta o riconosciuto in queste righe, o meno; che tu abbia rintracciato le radici della tua storia famigliare oppure no, questa settimana ti chiedo di manifestare tutto l’amore di cui sei capace.
Presta attenzione ai tuoi gesti di indisponibilità (verso di te e verso gli altri) e quando ti accorgi di metterli in gioco, compi un atto d’amore e fai qualcosa che non faresti così spontaneamente:
• tira giù il ponte levatoio del castello in cui ti sei rinchiusa o rinchiuso per farci entrare qualcuno che sta bussando;
• fuma qualche sigaretta in meno;
• mangia qualcosa in più se di solito ti affami o rinuncia all’ennesimo spuntino se tendi al binge eating;
• chiama tuo fratello o tua sorella solo per chiedergli o chiederle come se la passa senza aspettarti nulla di diverso solo perché ti sei aperta o aperto a un gesto di accoglimento (il dono, dunque il perdono, è insieme azione e ricompensa)
• ringraziati ogni sera per aver fatto del tuo meglio
E se ti fa piacere condividere con me la tua storia con le tue storie di famiglia, ti aspetto qui sotto nei commenti, oppure su Facebook o su Instagram.