Quando ritrovarsi nella merda non è terribile come sembra

Mi sono a lungo domandata quale fosse il senso delle cose peggiori che ci capitano.

Che senso abbia perdere un genitore, un figlio, un amore; che bisogno ci sia di fame, carestie, epidemie, guerre, violenze. Quale sia la necessità del dolore di non riconoscersi, della paura di non essere sufficienti, della confusione esistenziale.

Ha davvero uno scopo l’ondata di merda che – almeno una volta nella vita, per i più fortunati – ci travolge?

«Merda, merda, merda!»

Quando cerco di razionalizzare, di trovare una risposta, ammesso che ne esista una, penso che la merda che ci sommerge non dev’essere tanto terribile visto che in alcuni casi la sostanza in questione viene invocata per ottenere fortuna, o a titolo di buon auspicio.

Chiunque abbia fatto teatro, o abbia lavorato nel mondo dello spettacolo, sa che prima di andare in scena si usa, tra gli attori soprattutto, un particolare rito scaramantico: augurarsi «tanta merda!».

Sull’origine di questa usanza non ci sono certezze. Una versione della storia racconta che tutto sia nato tra il Settecento e l’Ottocento, quando il teatro smise di essere passatempo popolare per rivolgersi a un pubblico più alto, borghese. Un pubblico che per recarsi agli spettacoli usava le carrozze.

Quindi, se al di fuori del teatro si accumulava «tanta merda», c’erano tanti cavalli e tante carrozze: il che significava molto pubblico e altrettanto guadagno.

Pestare la cacca porta fortuna

Nella cultura popolare si dice che se passeggiando per strada si finisce col pestare distrattamente un escremento, l’incidente porti fortuna.

Da alcune parti, per esempio in Francia, questo avviene solo se lo si calpesta con il piede sinistro. Mentre in alcune zone d’Italia, più che di un pronostico di generica fortuna si parla di una predizione d’arrivo di denaro.

Ho cercato in rete alcune informazioni riguardo la genesi di questa credenza, ma nessuna mi ha davvero soddisfatta. Così ho provato a darmi una mia spiegazione.

Gli escrementi, lo sappiamo tutti, sono il prodotto finale di un complesso processo di elaborazione degli alimenti che ingeriamo, che permette al corpo di scartare ciò che non serve per continuare a funzionare al suo meglio.

«Non l’ho proprio digerita!», diciamo di qualcosa che accaduta e che ci è rimasta sullo stomaco, fastidiosa e ingombrante.

Dunque, ho pensato, pestare una cacca è di buon auspicio perché, nonostante il disgusto per la materia che imbratta la suola delle nostre scarpe, metaforicamente siamo passati sopra qualcosa che di sicuro un giorno ha avviato in noi un laborioso processo di elaborazione, ma oggi è faccenda digerita, espulsa. Questione chiusa.

Pestare un merdone

Le cose di fanno più complicate quando ciò che pestiamo non è un escremento qualsiasi, ma un vero e proprio merdone.

Anche qui, ho una mia teoria.

Date le dimensioni spropositate della deiezione, vien da chiedersi come abbiamo fatto a finirci dentro con tutte e due le scarpe.

Insomma, era lì, grande, grosso, purulento e puzzone, e non lo abbiamo visto? Dove eravamo con la testa? Cosa ci ha distratti?

Pestare un merdone non è d’auspicio, è un monito tardivo, esperienziale; non molto piacevole, eppure utile.

Sì, perché a meno di non essere degli irriducibili masochisti, su quel particolare merdone non passeremo una seconda volta, e con un po’ di presenza e consapevolezza in più, è di molto probabile che ne eviteremo tanti altri.

Digerire la propria storia

«Ne hai vista tanta di merda, eh? Ma serve a qualcosa sguazzarci dentro? Aiuterà a costruire un mondo in cui i nostri figli staranno meglio di noi?»

È un frammento di dialogo preso dal film Opera senza autore [qui trovi lo streaming, qui il dvd] che racconta la vita Kurt Barnert (personaggio liberamente ispirato al pittore tedesco Gerhard Richter), artista che si trova a fiorire, come pittore e come uomo, in un’epoca tormentata prima dal nazismo, poi dalla Seconda Guerra Mondiale, infine dalla spaccatura sociopolitica della Germania in Repubblica Federale Tedesca e in Repubblica Democratica Tedesca.

A parlare, in questo dialogo, è il “compagno caporeparto” della tipografia in cui Kurt Barnert lavora come operaio grafico e nella quale, il giovane, potendo lì disporre di carta e matite per disegnare, si attarda ben oltre l’orario lavorativo.

Il  compagno caporeparto lo ha appena sorpreso in questa attività clandestina, ha sfogliato i suoi disegni, cupi, atroci, degenerati come durante il Regime Nazista si diceva fossero le opere di alcuni artisti della Nuova Oggettività o appartenenti ai cosiddetti Modernisti.

Alla visione degli schizzi del giovane, il compagno caporeparto lo ammonisce: per fare qualcosa di buono di sé, del proprio talento, c’è davvero bisogno di sguazzare nella merda della propria storia?

Da qui ha inizio l’epopea artistica del protagonista tra drammi famigliari, ricerca di un posto del mondo, di uno stile, di un’identità.

Una ricerca che sì, pare dirci l’autore del film, e io concordo, non può che passare dall’immersione nelle pagine più indigeste, dolenti, malodoranti e putride della nostra storia. 

Non per sguazzarci dentro, bensì per elaborarle e fare in modo di tirarne fuori qualcosa di unico e glorioso.

Dai diamanti non nasce niente

Trovarsi nella merda non è così terribile.

Vedila dal punto di vista di un campo che voglia mantenersi sano e fecondo e che per questo accoglie come un dono il letame di cui viene cosparso.

I campi concimati sono fertili. Merito dell’azoto e di tutta una serie di elementi presenti nel letame che nutrono e ammendano il terreno.

Nutrire e ammendare, a questo serve dunque la tanta merda che pestiamo o ci cade addosso, ma solo se siamo tanto tenaci e accorti da usarla per fertilizzare la nostra storia.

In fondo, i viaggi immaccolati sono quelli organizzati da altri, quelli in cui veniamo portati in giro a vedere il meglio che c’è in quel determinato posto. Ma il meglio che c’è non è tutto quel che c’è e, soprattutto, non è detto che sia il meglio per noi.

Come quando Siddharta viene portato fuori dal suo palazzo dorato ed è tutto bello, ma finto: un set preparato per anestetizzare le sue angosce, per porre fine alle sue domande.

Per Siddharta, per Kurt Barnert, per te e me, il momento migliore non è il momento perfetto da manuale. Il momento migliore è quando scendiamo dalla portantina, ci immergiamo nei meandri della città, o della nostra storia, là dove nulla è forzatamente bello, là dove anche il dolore trova cittadinanza e si trasforma in un’esperienza estetica. Quello è il campo fertile per la fioritura.

No, non sto facendo un’apologia del dolore e del disastro. In verità auguro a te e a me stessa anni di gioia e felicità.

Quel che non ci auguro è l’incapacità di vivere insieme alle contraddizioni e ai contrari.

L’incapacità di accogliere il fallimento e il dolore e di fare delle nostre tante ferite altrettanti spiragli dai quali lasciar passare tutto il nostro talento e i nostri doni; tutto ciò che di meglio possiamo offrire al mondo.

Prova settimanale dell’eroe

Questa settimana ti invito a cercare un vero momento di merda del tuo passato: a ripensarci oggi, è stato un dolore, o un fallimento, inutile o il miglior fertilizzante che potessi augurarti per la tua storia?

Io ne ho davvero una collezione da far invidia di questi mdm, momenti di merda, e non saprei dirti quale mi sia stato più utile. Perché a passarli in rassegna uno per uno, riesco a vedere solo il meglio di ciò che è arrivato dopo, grazie a loro.

Aspetto qui nei commenti, o ovunque tu voglia condividerli con me, i tuoi mdm, perché condividere un po’ della nostra merda quotidiana potrebbe avere un effetto concime per il campo sofferente di qualcun altro.