Quanti dei pensieri che hai su di te, arrivano da te?
La risposta più immediata sarebbe: tutti. Non possiamo infatti pensare all’infuori di noi: ogni pensiero che formuliamo è qualcosa che ci appartiene. Il fatto che ci appartenga, però, non significa che sia anche stato generato da noi.
Ci appartengono, per esempio, gli oggetti sulle nostre scrivanie, gli abiti che indossiamo, gli strumenti che utilizziamo per lavoro o per sollazzo, ma non di tutte queste cose siamo anche gli artigiani creatori. Anzi, il più delle volte ne siamo piuttosto gli acquirenti, o gli eredi.
Come molti degli oggetti che possediamo, anche i nostri pensieri non sono sempre farina del nostro sacco.
Il meglio che possiamo fare per noi stessi e la nostra storia, è imparare a distinguere ciò che acquistiamo ed ereditiamo, da ciò che originiamo al di fuori di qualunque influsso esterno.
Lo avrei rotto lo stesso?
All’inizio dell’anno scolastico, nel 1974, lo psicologo tedesco Robert Rosenthal propose ad alcune maestre di una scuola elementare di sottoporre gli alunni del primo anno a una serie di test preliminari.
Le maestre, del tutto all’oscuro dei reali obiettivi dell’esperimento, si resero disponibili. Effettuati i test, Rosenthal consegnò alle insegnanti dei falsi risultati in cui si attestava la presenza di un gruppo A di bambini, studiosi, intelligenti e diligenti; e un gruppo B composto da bimbi scarsamente dotati per lo studio, pigri e meno brillanti.
La suddivisione in questi due gruppi fu, naturalmente, del tutto casuale, ma agevolò l’insorgere di specifiche aspettative delle maestre nei confronti dei bambini.
Alla fine dell’anno scolastico, Rosenthal si avvide che i voti del gruppo A erano migliori rispetto alle valutazioni del gruppo B, e ne concluse che le aspettative che le persone hanno le une nei confronti delle altre si riflettono nell’atteggiamento e che l’atteggiamento favorisce l’avverarsi di una sorta di profezia: il noto effetto Pigmalione.
La domanda centrale alla base dell’esperimento di Rosenthal è presente in una delle scene di Matrix, quando Neo incontra l’Oracolo:
ORACOLO: So chi sei, Neo. Sono subito da te.
NEO: Sei tu l’Oracolo?
ORACOLO: Indovinato. Non sono come tu ti aspettavi, vero? Oh, sono quasi pronti. Un profumo delizioso, eh?
NEO: Sì.
ORACOLO: Ti inviterei a sederti, ma tanto so che non lo farai. E non preoccuparti del vaso.
NEO: Quale vaso? (Neo urta accidentalmente un vaso di fiori che cade a terra andando a pezzi)
ORACOLO: Quel vaso.
NEO: Chiedo scusa.
ORACOLO: Ti ho detto di non preoccupartene. Lo farò riparare da uno dei miei ragazzi.
NEO: Come lo sapevi?
ORACOLO: Oh… E la domanda successiva che ti frullerà nel cervello sarà “lo avrei rotto lo stesso se non avesse detto niente?”
Parole e destino
Riconoscere la semenza dei nostri pensieri, significa mettere ordine nelle narrazioni che abitano la nostra mente così da non trasformarci in depositari inconsapevoli di un destino apocrifo, inautentico.
La filmografia e la letteratura sono piene di storie in cui le narrazioni apocrife costruiscono il destino del o della protagonista.
Edipo, per esempio, la cui storia è inficiata dalle previsioni dell’oracolo di Delfi. O Amleto, al quale tre streghe annunciano la conquista al trono che determinerà la sua rovina.
Nel mondo in cui viviamo io e te non è diverso: la nostra storia intreccia la storia che altri ci proiettano addosso con sentenze, oracoli, parole. Veri e propri incantesimi gettati sulla trama della nostra vita:
«Se continui così, non arriverai mai da nessuna parte»
«Finirai con il rovinare tutto»
«Tanto lo so che te lo dimenticherai»
«Tu non vuoi proprio capire!»
Nemo profeta
Profezie camuffate da più o meno nobili intenzioni che nel momento in cui vengono verbalizzate innescano un meccanismo di storytelling interiore.
Ed ecco che un nano secondo dopo aver ascoltato la parola oracolare, ci vediamo nell’atto di fallire, di rovinare, di dimenticare, di non capire.
Mentre si costruisce nel nostro immaginario, la profezia entra a far parte della nostra memoria: quel futuro preannunciato è come già accaduto, e a noi non resta che raggiungerlo.
Tutto ciò, naturalmente, non vale soltanto per le profezie che arrivano dall’esterno, ma anche per le predizioni che nascono dall’amplesso tra le nostre paure e le nostre credenze limitanti.
Ti è famigliare?
Effetto nocebo
L’effetto nocebo è un’autosuggestione malefica posta in essere a seguito di un evento percepito come dannoso.
Ti è mai successo di trovarti in una situazione in cui ti sentivi bene, in cui tutto pareva scorrere nel più naturale e piacevole dei flussi, quando qualcuno, con una frase infelice buttata lì per caso, ha cambiato completamente non solo il tuo stato d’animo, ma anche l’epilogo di una giornata potenzialmente fantastica?
O magari ricordi di un giorno qualunque in cui ti sei svegliata, o svegliato, con una botta di vita pazzesca, e i monti ti sorridevano e le caprette ti facevano ciao. Poi, d’improvviso, una manciata di asserzioni ha evocato i tuoi demoni, stravolto il tuo buonumore, frantumato la tua sensazione di fiducia, scoraggiato il tuo spirito di iniziativa.
Ti avverto!
«Ti avverto, non è tutto oro quel che luccica!»
Ti hanno avvertita, o avvertito: hanno cioè spostato la tua attenzione verso la loro versione della storia.
Un attimo prima eri la gemella, o il gemello diverso di Iridella, un attimo dopo precipitavi all’inferno, dove insieme allo skyline è cambiato anche il tuo vocabolario: stop al florilegio di parole piene di speranza, coraggio e possibilità; via libera alla raccolta di geremiadi, risentimenti, ruminazioni.
Parole avvelenate, le chiamo così, che intossicano la mente e lo spirito, che abbrutiscono e ammalano l’anima.
La parola giusta
Le parole che usiamo, per descriverci, per rivelarci, per raccontarci l’altro e il mondo, e per comunicare, sono nucleari: sono cioè il fondamento da cui si sviluppa la struttura della storia, nostra e altrui.
Le parole che usiamo non sono soltanto un insieme di lettere che producono suoni riconoscibili e significanti, sono atto. Se le usiamo per blastare (demolire, smontare), ciò che mettiamo nel mondo della nostra narrativa personale è un’atto di distruzione.
Trovare la parola giusta al momento giusto non è sempre facile, ma è una responsabilità che è importante prendersi nei confronti della nostra vita e delle nostre relazioni.
Se la parola creativa non viene fuori al primo colpo, non importa! Tu provaci ancora e ancora. Ritratta senza aver timore di passare per una mollacciona o un mollaccione.
Dagli esempi di poco sopra, per esempio:
«Tu non vuoi proprio capire!»
• «Mi è uscito che non mi capisci, ma intendevo dire che non riesco a trovare il modo per condividere come mi sento quando…»
«Se continui così, non arriverai mai da nessuna parte»
• «Ho detto che se continui così non arriverai da nessuna parte, ma ciò che penso davvero è che fatico a vedere ciò che vedi tu e ho paura che tu possa soffrire»
«Finirai con il rovinare tutto»
• «Ho detto che rovinerai tutto, ma ciò che mi preme tu sappia è che in questa situazione ci siamo dentro entrambi, e vorrei ce ne occupassimo insieme»
«Tanto lo so che te lo dimenticherai»
• «So che sei preso/a da mille cose, come posso aiutarti a non dimenticare questa promessa che mi hai fatto? Per me è molto importante»
Se ad avere qualche problema a generare parole creative al primo colpo è la persona che hai di fianco, o di fronte, tu prendila per mano e provate a trovare insieme le parole migliori per raccontarvela giusta e destinarvi alla storia che desiderate.
Prova settimanale dell’eroe
L’esercizio di questa settimana puoi farlo sola, o solo, oppure puoi condividerlo con qualcuno le cui parole hanno su di te un effetto nocebo.
Senza escludere nulla, senza censurarti, senza mentire: quali parole nuove e creative puoi trovare per sottrarti alla malia di una predestinazione in cui non ti riconosci?
Ti auguro una settimana di parole belle, originali e costruttive.