Nel 1993, con il mio bel diploma di Scuola Media in mano, mi apprestavo a scegliere a quale scuola superiore iscrivermi.
Oddio, scegliere… Diciamo decidere tra le uniche due alternative messe sul tavolo, in famiglia: Liceo Classico o Liceo Scientifico. In verità, l’opzione Liceo Classico era una farsa: nessuno, i miei insegnanti delle Medie in primis, pensava fossi in grado di affrontare un percorso di studi così intenso e impegnativo come quello proposto al Classico.
Dalle Medie ero uscita senza lode né infamia. Quel <buono>, vergato in bella grafia dietro il diploma, diceva che sì, insomma, non ero ciuccia, ma nemmeno una cima. All’epoca, al Classico, si iscrivevano i Distinto, gli Ottimo. I Buono potevano al massimo ambire a un professionale. E a me un professionale sarebbe andato benissimo. Anzi, nelle mie aspirazioni c’era L’Istituto Magistrale, da poco diventato Liceo Socio Psico Pedagogico. Ma quel rebrand nel nome non aveva alcun valore nel prontuario famigliare: lo Psico Pedagogico rimaneva un Istituto Magistrale, dunque un <non Liceo> e quindi epurato dalla lista delle possibilità.
L’artistico, dici? Secondo me è una domanda retorica la tua.
Non è il cosa, ma il come
In ogni famiglia ci sono regole. Le regole servono per la convivenza civile, ma come dice Massimo Recalcati in un’intervista a Quante storie: «Non siamo cavalli»
C’è una bella differenza tra educazione e indottrinamento. Tra il tirare fuori il meglio dalle persone e infilare nelle persone ciò che noi crediamo sia il meglio.
Oltre a una liceale, mi è stato chiesto di essere molte altre cose e di modificare la mia struttura perché si adattasse alle esigenze del clan. E le richieste sono arrivate in modi diversi: «Quando avrai una casa tua, farai come vuoi tu», «Le persone sane, fanno così», «Anche a me piacerebbero tante cose, ma…»
Più o meno al terzo superiore, alcuni amici lanciarono l’idea di un Interreg durante le vacanze estive. Olanda, Francia, Spagna l’itinerario, se ricordo bene. Ne avevo parlato in famiglia e mi era stato detto: «Se la scuola va bene e le persone con cui vuoi partire sono fidate, ok». Quell’anno non ho preso nemmeno una materia. Ho invitato gli amici a casa più spesso del solito perché si capisse che erano ragazzi e ragazze a posto. Ho organizzato il viaggio fino alle ultime 100 lire e con un budget davvero ridicolo. E al fatidico momento dell’acquisto dei biglietti, la risposta definitiva fu: «Certo, puoi farlo: ce li hai i soldi?»
Avevo 17 anni, con i lavori estivi mi pagavo i libri scolastici, il treno, le spese del motorino e le mie telefonate (sì, a casa mia ognuno pagava le proprie telefonate; era, credo, un modo per scoraggiare l’abuso dell’apparecchio). E no, non ce li avevo i soldi, non tutti almeno.
La proposta di anticiparmeli – li avrei restituiti un po’ per volta – cadde nel vuoto. La questione non era il costo. Evidentemente. E non erano nemmeno i compagni di viaggio sui quali non pendeva alcun veto di frequentazione. I miei amici partirono. Io feci la solita stagione in pizzeria, perché per lavorare la regola del «non si esce la sera» e quella del «coprifuoco entro la mezzanotte» decadevano.
Per anni mi sono trovata nella condizione di decidere (tagliare via qualcosa) e mai in quella di scegliere (puntare a qualcosa). A casa mia funzionava così: A o B, bene o male, giusto o sbagliato, buono o cattivo, dentro o fuori, con me o contro di me.
Se un giorno mi venisse voglia di scrivere un romanzo dai tratti autobiografici lo intitolerei: Gli Slashers. Mi pare un titolo abbastanza fico.
O mangi di ‘sta minestra
La famiglia intrusioni e dictat ha un manuale delle regole per tutto e funziona come un culto: lo ierofante detta La legge, i discepoli la seguono senza fiatare. In caso contrario, arriva la punizione.
«Se ti comporti bene (leggasi: come dico io), sarai ricompensato», ovvero otterrai in cambio amore e protezione. Se esci dai binari, il prezzo da pagare sarà la privazione, quando non addirittura l’estromissione.
Per capire meglio quanto pesino estromissione e privazione nella vita di ciascuno di noi, dobbiamo aprire una parentesi su uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano: il bisogno di «sentirsi parte di».
Far parte di un contesto, essere un noi, significa godere dei privilegi offerti dalla consorteria e dalla vita comune; maggiore è il significato che attribuiamo a quello stare insieme, maggiore sarà il valore che assegneremo a quell’appartenenza.
Appartenere a un sistema è un esigenza umana imprescindibile; tuttavia, quando questa adesione trascende nella coercizione, non subiamo perdite solo a livello di libertà individuali, ma rimaniamo imprigionati in un registro di coazioni che non ci fa evolvere e che non ci responsabilizza.
Un bambino, o una bambina, che cresca in una famiglia autoritaria e intrusiva, potrà infatti essere, anche da adulto, una personcina tanto educata e affabile, ma il suo comportamento così amabile e conciliante sarà, fintanto che non si emancipa dalle regole che gli o le sono state imposte, una reazione alla paura delle ritorsioni e non-già frutto di un’educazione al rispetto dei sentimenti dell’altro.
Do ut des: ti do affinché tu mi dia. Non un atteggiamento propriamente virtuoso.
O salti dalla finestra
Ricordi il discorso sull’identificazione nella fiaba del Brutto Anatroccolo? Finché la nostra identità è determinata dal gruppo, o clan di appartenenza, siamo una storia limitata alla trama che altri intrecciano per noi.
Finché stiamo alle regole del capo clan – finché siamo il «gioiello di mamma e papà», il «pupillo della maestra», il «protetto del boss» – siamo salvi, o per meglio dire: salvati.
Il disobbediente, invece, non è degno del clan e per lui non c’è posto in Paradiso. A meno che non si penta e faccia opera di espiazione e riparazione o, detto in altri termini, non si sottometta alla legge del capo branco.
Il risultato di questa sottomissione sul carattere di una persona è prevedibile:
- bassa autostima
- complessi di inferiorità
- mancanza della fiducia di base nelle persone
- passività
- adesione acritica
- rigidità mentale e resistenza al cambiamento
- paura dell’esperienza
- pensiero polarizzato (bianco/nero)
- scarse capacità di socializzazione
- mancanza di autonomia
- tendenza a confondere aggressività ed esercizio del potere con il carisma e la leadership
Una ferita della creatività
La creatività, oltre a essere principio sine qua non di qualsiasi manifestazione artistica, è soprattutto la capacità di utilizzare il pensiero laterale, di mettere in moto l’inventiva, di ragionare e agire fuori dagli schemi e della regola.
È probabilmente una delle facoltà più preziose dell’essere umano perché quando ciò che sappiamo non basta, non è efficace, non funziona più, possiamo attingere ad essa e proseguire nel nostro cammino evolutivo.
In una famiglia intrusioni e dictat, però, qualunque cosa esca dalla regola è vista come alto tradimento e per questo punibile con la più severa delle condanne. Così, per non tradire il clan e scampare al castigo, la facciamo più facile: rinneghiamo noi stessi e rinunciamo alla nostra creatività.
E lo facciamo principalmente in due modi:
- subordinazione mode on
- insubordinazione mode on
In entrambi i casi il sentimento imperante è la rabbia: nella modalità subordinata la rabbia si rivolge principalmente all’interno dando vita a un atteggiamento autodistruttivo («Io non valgo»); nella modalità insubordinata si dirige all’esterno producendo un comportamento riottoso a prescindere («Io non cedo»).
In entrambi i casi si è di fatto sottomessi a un ordine superiore, a un comando bell’e buono:
- Io non valgo abbastanza per decidere ciò che è meglio per me, dunque faccio esattamente quel che mi si dice e chiede
- Io non cedo al volere altrui, quindi faccio esattamente l’opposto di quel che mi si dice o chiede
Soccombo o mi oppongo: un’altra volta ancora, una terza, quarta o quinta via non sono nemmeno ipotizzabili. La creatività è al grado zero del suo potenziale. La vita, nondimeno.
Prova settimanale dell’eroe
Se ti stai domandando quali delle due modalità io abbia messo in atto prima di compiere il mio processo di individuazione, ti rispondo subito: entrambe, in tempi diversi.
Quando ho capito che soccombere e oppormi non erano le uniche due, nonché totalmente inefficaci, strade percorribili, ho iniziato a domandarmi cosa avrebbe fatto una Carlotta aliena, appena sbarcata sulla Terra e priva di qualsiasi informazione sulle regole del nuovo mondo, in quello stesso contesto.
D’accordo, forse non era proprio la domanda più ortodossa da porsi in una situazione di malessere, ma non era nemmeno più folle che continuare a sbattere contro lo stesso muro come un robot aspirapolvere in tilt.
La mia versione aliena, aka Carlotta626 (perché in fondo è di salvarsi la vita che si parla), ha funzionato: lei, libera da qualsiasi contratto affettivo capestro, ha saputo mettere in moto tutta quella creatività che io avevo mandato in panne.
Questa settimana ti invito a metterti in contatto con il tuo alieno626 e lasciare a lui, o a lei se è femmina, o a loro se immagini un alieno bi o tricefalo, il compito di trovare nuove risposte a vecchie dinamiche.
Che ne dici, ci proverai?
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