Immagina questa scena: mercato del sabato, banco di frutta e verdura colmo di ogni ben di Dio e con una fila di acquirenti che non si sa dove finisca. Finalmente arriva il tuo turno. Con l’acquolina in bocca e gli occhi larghi di chi sta già cominciando a gustare con la vista, ti rivolgi all’ortolano e:
«Allora, non mi dia le zucchine perché le ho appena mangiate. Sarei tentata dalle trombette, ma sono un po’ dolci e ultimamente non mi fanno tanta gola. Tolga anche la zucca mantovana e la violina. Non pensi nemmeno lontanamente di darmi gli spinaci, sa mi battono un po’ sui reni. E direi che questa settimana salto anche i finocchi, la barbabietola, il cavolo romano, i friggitelli, i peperoni, gli asparagi, le rape, i porri, i funghi e le cipolle bionde e bianche. Assolutamente eviti di darmi le patate, nemmeno quelle dolci. E per cortesia non mi metta pomodori e melanzane, per via del nichel. Per quanto riguarda la frutta non voglio mele, melograni, banane. I meloni gialli assolutamente no, perché non li digerisco. E mi raccomando: lasci perdere la frutta secca! Di quel che rimane, me ne faccia un kg. O è troppo? Lei che ne dice? Meglio mezzo? Facciamo un po’ e un po’?»
Te la figuri l’espressione atterrita, dispersa e disperata dell’ortolano?
Ecco, tienila bene a mente e pensa che quella potrebbe essere la ‘faccia’ del tuo cervello per circa 5840 ore l’anno, perché per fortuna sua le restanti 2920, ora più, ora meno, le passi a dormire.
Sapere cosa non si vuole
Quando chiedo a una o un coachee cosa l’abbia spinta o spinto a intraprendere un percorso di coaching, il 90% delle volte la risposta che mi viene data inizia con un “non voglio”.
La nostra mente è incastrata nei «non voglio» perché le possibilità che si aprono di fronte a noi sono potenzialmente infinite, e di fronte al potenzialmente infinito il nostro cervello va in tilt. Non regge. Sbagliamo più acquisti perché possiamo acquistare in qualsiasi momento, orario e con qualsiasi stato d’animo. Sbagliamo gli investimenti, anche quelli emotivi certo. Sbagliamo a scegliere i vestiti, le scarpe, il cibo, l’indirizzo di studi, il lavoro, la casa in cui abitiamo e persino le persone con cui passare il nostro tempo.
Sbagliamo per stanchezza. Per dichiarato default della nostra materia grigia. Sbagliamo perché a forza di registrare tutti i nostri «non voglio», non rimane granché spazio per i «voglio». Se so di volere un paio di scarpe blu, infatti, per quale ragione provarne di verdi, di gialle, di viola…?
Ma se non so cosa voglio, potrebbe andar bene tutto. E per vagliare tutto ci vogliono un sacco di tempo ed energie:
⇒ Ce l’hai tutto questo tempo e queste energie?
⇒ Non c’è nulla che faresti più volentieri con questo tempo e queste energie?
Te la sto mettendo giù senza edulcorazioni non perché abbia una predilezione per il terrorismo psicologico, anzi. Ti propongo la situazione in questi termini perché se c’è una cosa che mi viene riportata nove volte su dieci dai clienti, quella cosa è: «Lo farei, ma chi ce l’ha il tempo e le energie?» E il più delle volte il problema del tempo e delle energie non è legato al fatto che il primo sia poco, e le seconde latitino per farci un dispetto, quanto che entrambe le risorse vengano utilizzate in modo sprovveduto e si ritrovino risucchiate dalla fatica decisionale.
Chi troppo vuole, nulla stringe
La fatica decisionale è quella fatica che deriva dal dover prendere un numero troppo elevato di decisioni in breve lasso di tempo.
Uno studio del 1956, ancora accreditato dalla comunità scientifica, ci dice che il cervello umano può processare al massimo sette informazioni, più o meno due (The Magical Number Seven, Plus or Minus Two: Some Limits on Our Capacity for Processing Information, George Miller, Psychological Review, 1956 → qui se vuoi approfondire). Vale a dirsi da 5 a 9 informazioni in un lasso di tempo breve. Oltre, il cervello entra in uno stato di stress e le performance calano, come sostengono anche gli psicologi Sian Beilock e Thomas Carr:
«[…] se viene meno la capacità della memoria di mantenere la concentrazione sull’attività da svolgere, le prestazioni ne risentono»
Ragione per cui il multitasking non solo è inefficace, ma è anche deleterio per la salute dei nostri tre preziosissimi cervelli.
Dunque, perché caschiamo nella trappola del multifare?
Alcune teorie, con le quali mi trovo d’accordo, rispondono che la tecnologia, soprattutto negli ultimi anni, ci ha dato l’illusione di poter fare di più, più velocemente e in contemporanea. Lungi dal semplificarci la vita, dunque, le nuove tecnologie, pur fregiandosi del titolo smart, ci hanno messo nella condizione di avere più input di quanti non riusciamo umanamente a processare. Tuttavia, per non rischiare d’apparire la luddista che non sono – io amo la tecnologia, al massimo metto in discussione l’uso che se ne fa – mi sembra doveroso ricordare che a governare questi aggeggi dalle mille e una funzione c’è sempre una mano umana, che potrebbe anche scegliere di rimanere in tasca, o intrecciata ad altra mano, o avvolta intorno a una forchettata di spaghetti, per esempio.
Scegliere. Una parola che in certi ambienti, tra cui il mio, ci si ritrova spesso a pronunciare a bassa voce per non rischiare di venir tacciati di boicottaggio alle libertà individuali. Per me, lo avrai capito, la libertà non può che passare attraverso una scelta: perché se retoricamente tutto è possibile, realisticamente – in una vita – non puoi realizzare tutto. Puoi, questo sì, realizzare tutto ciò che vuoi. Che è un concetto completamente diverso.
E torniamo, come in un ciclo destinato a non chiudersi mai se non introducendo un elemento di cambiamento, alla domanda iniziale del post:
«Ciao tu, sono la tua vita, cosa posso servirti oggi?»
Scegliere
A scegliere s’impara. E si impara incominciando a dire no. Lo so, questa parte ti confonde perché poco sopra ti ho detto che conta di più ciò a cui diciamo sì. E allora? Devo forse far pace con il mio cervello? Be’, sì, come tutti, ma non in questo caso. In questo caso a dover far pace con il cervello sei tu, sempre che il tuo sia stato trattato come l’ortolano della storiella di apertura a questo post.
Cambiare comportamenti e abitudini per migliorare la qualità della nostra vita è a tutti gli effetti portare innovazione all’interno del nostro sistema. Steve Jobs, proprio quello della smartcosa che ci ha inguaiati più di tutte le altre, sosteneva «il segreto dell’innovazione è dire sì a una proposta e no ad altre mille»
E vorrei che notassi quel: «dire sì a una proposta». Dire sì a una proposta significa dare priorità a quella voce della tua lista che costituisce non soltanto una delle task della tua agenda giornaliera, ma l’azione con la A maiuscola che dà senso alla tua agenda di vita.
Che la tua agenda di vita sia diventare uno scrittore, un cuoco, una muratrice (come lei, che adoro!), o sia recuperare salute, autostima, sicurezza e relazioni, è di fondamentale importanza che tu dica sì e tu dia priorità a tutto quanto possa portarti a realizzare quell’agenda, e no a tutto ciò che ti tiene lontano e separato dal tuo progetto.
Prova settimanale dell’eroe
Qual è la tua priorità da qui alla fine dell’anno?
La parola priorità in italiano è un sostantivo femminile invariabile. Ciò significa che viene usata invariabilmente al singolare e al plurale. In origine però, vale a dire nel latino medievale, “priorità” esisteva solo nella sua forma singolare: prioritate (la prima cosa).
Da oggi e fino alla fine dell’anno, ti sfido a prenderti l’impegno di dire sì a tutto quanto ti porti nella direzione della prima cosa, la più importante di tutte le altre, e no al resto delle proposte e richieste che riceverai (a meno che non siano una questione di vita o di morte per te o per qualcuna delle persone che ami. Vita o morte. Capricci e pretese, N.P.)