Ho con la mia e altrui memoria, raccontata o scritta su un diario o una lettera, lo stesso rapporto che ho con i libri, o i film: ci entro, se mi è concesso farlo, come si entra in una storia in cui è chiaro che dietro, prima ancora di un fatto, c’è un autore.
Amore, ti ricordi?
La prima grande rivelazione rispetto alla questione che non esistono fatti ma soltanto narrazioni, e che la quella cosa che ci ostiniamo a chiamare realtà andrebbe definita più correttamente percezione, l’ho avuta intorno ai diciassette anni.
In un locale che ha fatto la storia delle mie zone di giovanili memorie, io e il mio innamorato dell’epoca. Lui: biondo, occhi blu che ci si poteva fare intere regate dentro, bello come il sole ma non certo un campione di attenzioni e sensibilità.
Io: cotta come la mela che ti danno all’ospedale, occhi verdi di chi ha molta speranza e poca pazienza, trucco viola e faccia pallida di chi rispetta le regole del gioco e ci sta a fare la parte dell’adolescente diversa, ribelle e tormentata in mezzo a centinaia di altre adolescenti truccate di viola, ribelli, diverse e tormentate.
Il dj mette su un brano. Il cuore inizia a battermi all’impazzata. Io guardo lui. Lui, si volta verso di me e mi fa un sorriso. Io, penso: ecco, ha capito! Lo sapevo! È proprio lui l’uomo (ahahahahahah!) della mia vita (ahahahahahah!). Lui, tra gli effetti della cannabis e quelli della musica troppo alta, sempre sorridente perché si sa che il delta-9-tetraidrocannabinolo ha questo effetto sulla muscolatura del volto, mi fa un gesto del muso come a dire: «’mbè? Che vuoi?»
Io, che nemmeno di fronte all’evidenza ho voglia di perdere la speranza, dico, con gli occhi a cuore: «La nostra canzone!»
Lui, che nelle questioni romantiche neppure con una palla servita a modino sotto rete è in grado di andare a punto, risponde: «Quale?»
La memoria involontaria
La mia madeleine per questo ricordo è stata intercettare per radio il brano che quella sera di tanti anni fa mi ha spezzato il cuore in un puzzle di 10000 piccolissimi pezzi.
«Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleine, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto di madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva? Che senso aveva? Dove fermarla? […] All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio.»
Così nella Ricerca del tempo perduto, Marcel Proust racconta il meccanismo della memoria involontaria. Quella che attiva i nostri ricettori per mezzo di stimoli fortuiti come appunto il morso a un dolce dell’infanzia, un brano musicale, un odore…
Ma lo scopo di Proust e della sua Ricerca non fu tanto il dare una cittadinanza ad honorem ai ricordi, quanto lo scrivere un romanzo che dimostrasse come la memoria operi attraverso mezzi che sono deviati.
Come la nostra percezione della realtà si arricchisca di particolari del tutto personali nel momento in cui la nostra coscienza lascia il posto ai processi involontari della mente.
La memoria volontaria
Per capire se ci sia riuscito o meno, basterebbe mettersi di fronte ai co-protagonisti delle storie che ci siamo raccontati e confrontare le nostre reciproche verità mnemoniche. Quel che succede, nel novanta percento dei casi, è di trovarsi di fronte a una narrazione di percezioni soggettive e quindi differenti.
Un’esperienza ancora più impressionante di una madeleine, ovvero di uno stimolo involontario della memoria, è il faccia a faccia volontario con le storie che noi stessi ci siamo raccontati negli anni.
Il caso più emblematico è rileggere un vecchio diario o quaderno memoriale. E quando dico vecchio intendo vecchio per davvero.
Recentemente, per esempio, ho ripreso in mano i diari di una ventina di anni fa. Pagine fitte di storie che oggi, a richiamarle con la memoria, non racconterei affatto allo stesso modo.
Ora, immagino che qualcuno particolarmente puntiglioso possa già chiedersi se non siano, per quesitone di vicinanza, più veri i fatti riportati nei diari che non nei ricordi del presente.
La mia sensazione è che non lo siano né gli uni né gli altri.
In entrambe le situazioni, infatti, intervengono elementi di distorsione: la troppa vicinanza aumenta la stortura emotiva della realtà, che come una lente grandangolare tende a ingigantire tutto quanto sia in primo piano e prossimo all’obiettivo; la distanza nel tempo e nello spazio, dissolve invece i parametri d’identificazione con i sentimenti e le impressioni del qui e ora, restituendoci un quadro più freddo e distaccato di quel momento.
Ma se non possiamo fidarci dei ricordi, cos’è che chiamiamo esperienza?
È una domanda che mi attraversa da anni e alla quale non ho ancora trovato una risposta definitiva. Per ora, sono dell’opinione che ciò che chiamiamo esperienza sia l’incrocio tra i fatti e la memoria.
Tra i fatti, la loro narrazione e quel che ne facciamo
All’incrocio tra fatti e narrazione c’è l’immaginazione.
C’è, quindi, quell’azione a immagine di ogni futuro possibile. C’è lo storytelling creativo in senso ampio: il racconto che crea scene e scenari in cui possiamo evolverci e trasformarci.
Tra fatti e narrazione c’è un autore: tu, unico tenutario della penna con cui scrivere la storia della tua vita.
E si dà il caso che questo autore abbia la responsabilità del personaggio che crea beat per beat, passo dopo passo, capitolo dopo capitolo.
E di quali gusti, amori, odi, passioni e risentimenti e fatto questo personaggio?
Ancora una volta mi rivolgo a Proust e al noto Questionario che porta il suo nome anche se suo non è. Il Questionario (detto) di Proust, infatti, era un popolare gioco di società dell’Europa del tardo Ottocento, simile, per tipologia di intrattenimento, a un Obbligo/Verità di oggi.
C’era, in quegli anni, la moda di scambiarsi tra amici una sorta di albo delle confessioni contenente domande – da intime a molto intime (per lo meno per l’epoca) – a cui rispondere.
Nel caso del Questionario di Proust, le domande furono escogitate da un’amica dello scrittore, Antoinette Faure, figlia del futuro presidente francese Félix Faure. Domande a cui il quattordicenne Marcel, ignaro del fatto che le persone, 150 anni dopo, ne avrebbero ancora parlato, fu probabilmente ben felice di dare risposta.
La particolarità di questo questionario è che pur nella semplicità delle domande che pone, mette l’intervistato nella condizione di tracciare un breve identikit della sua personalità. Una buona scheda da cui ripartire quando lo storytelling personale è bloccato tra la fine di un capitolo e l’inizio di quello successivo.
Prova settimanale dell’eroe
Mettiti alla prova anche tu con il Questionario di Proust scaricando qui sotto la copia che ho preparato per te e… buon divertimento!
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