perché hai bisogno di un alter ego

Nella lettera al suo professore Georges Izambard, un sedicenne Arthur Rimbaud scriveva:

«È falso dire “Io pens0”, si dovrebbe dire “Mi si pensa”. Scusi il gioco di parole: Io è un altro»

Roba da farsi masturbazioni mentali da qui alla fine del mondo.

E infatti, mentre inghiottivo una pagina dopo l’altra di quelle che possono essere considerate le opere più dichiaratamente memoriali e autobiografiche di Romain Kacew, alias Romain Gary (alias Émile Ajar, alias Fosco Sinibaldi, alias Shatan Bogat), il tema dell’altro me ha occupato anche gran parte delle pagine del mio diario.

Non sono sicura di voler risorgere.

Complici gli argomenti ricorsivi del periodo pasquale, ad un certo punto della settimana, giovedì credo, anche se ho scordato di mettere la data (cosa che mi succede spesso), ho scritto proprio così: «Non sono sicura di voler risorgere; preferisco moltiplicarmi. O per lo meno mutare forma»

Tipo Superman che muta in Clark Kent perché un alieno, per usare i propri superpoteri sul pianeta Terra, a beneficio dei terrestri, ha bisogno di un alter ego umano che gli permetta di con-fondersi.

O mutare forma come il dio Proteo, ingiustamente diventato simbolo dei voltagabbana di tutti i tempi seppure, come ricorda Omero (cito: «L’immortale vecchio del mare, che non mente mai, che suona il profondo in tutte le sue profondità»), nel mutare forma non muta mai la propria essenza. Semmai aumenta le possibilità.

Preferisco moltiplicarmi.

Non come umano che si riproduca generando da sé altri umani: esperienza di certo meravigliosa, tuttavia non è questo il tipo di moltiplicazione a cui mi riferisco. E nemmeno come un individuo che avendo accettato di uccidere il vecchio sé, partorisca ciclicamente un di nuovo se stesso.

Lo so che la resurrezione non dovrebbe essere proprio questa cosa qui, più simile a un loop che a un’evoluzione. Bisogna ammettere, però, che al netto di 2020 possibilità di resurrezione che ci sono state date, lo strumento non si è dimostrato efficace quanto si sperava.

Perché dunque non provarne un altro?

Quando immagino di moltiplicarmi, quando immagino le persone intorno a me moltiplicarsi, io vedo individualità capaci di incarnare tutte le migliori possibilità di sé.

Tutte le versioni potenzianti. Tutti i sistemi operativi aggiornati con i superpoteri più utili ai bisogni e ai desideri del presente. E mica solo i desideri e i bisogni egoistici ed egocentrici.

Immagino un io con tanti alter ego che lo liberano dalla storia che si è cucito (o lasciato cucire) addosso, che lo prendono per mano e lo portano all’incipit di un nuovo capitolo della propria vita: come fanno Clark Kent per Superman, The Mask per Stanley Ipkiss, Batman per Bruce Thomas Patrick Wayne.

Come ha fatto Émile Ajar per Romain Gary.

Se non fosse vera, la storia di Romain Gary e del suo alter ego Émile Ajar sarebbe la sceneggiatura perfetta  per un film destinato a rimanere una pietra miliare della storia del cinema.

Scrittore molto amato, e anche piuttosto acclamato dalla critica, nel 1956, con già cinque opere pubblicate e un Prix de Critiques in tasca, Romain Gary (con Le radici del cielo, considerato peraltro il primo romanzo autenticamente ecologista) vince l’ambitissimo Premio Goncourt .

Dal 1956 al 1980, anno del suo suicidio, usciranno a firma Gary altri ventisei romanzi più due opere postume.

Nei ventiquattro anni tra il Goncourt e la sua morte, la critica inizia però a essere meno entusiasta dei suoi lavori e a recensire senza troppe cortesie i suoi libri: Gary, dicono fuori dai denti, è uno scrittore finito, senza più nulla di originale o interessante da dare alla letteratura.

Al contrario, paiono invece esaltati da un un giovane scrittore, tanto talentuoso quanto misterioso, tale Émile Ajar.

Il re è morto, viva il re!

Vincitore, al secondo romanzo pubblicato, del Premio Goncourt, Émile Ajar è dunque la nuova promessa della letteratura francese.

E mentre tutto il mondo editoriale esulta per l’uscita allo scoperto del misterioso scrittore, non troppo abilmente interpretato da un parente di Gary, Émile/Romain se la ride sotto i baffi.

Cosa spinge uno scrittore famoso – che al contrario di quel che pensa la critica, forse troppo coinvolta nell’autocompiacimento del proprio ruolo, ha ancora, ed evidentemente, tantissimo da dire e da dare alla letteratura – a crearsi un alter ego per continuare a fare quel che ha sempre fatto?

A che serve un alter ego a chi non scappa da se stesso?

Gary, in uno dei due romanzi usciti postumi, Vita e morte di Émile Ajar, prova a spiegarci la creazione di Ajar così:

«Ero stanco di essere soltanto me stesso. Stanco dell’immagine di Romain Gary che mi avevano appiccicato addosso una volta per tutte, da trent’anni […] Mi avevano creato una faccia. E io forse, inconsciamente, mi prestavo alla cosa. Era più facile: una volta creata l’immagine bisognava solo accomodarsi, il che mi evitava di scoprirmi»

Non scrive: ero stanco di essere me stesso, sottolinea soltanto.

Non scrive quanto accomodarsi nell’immagine di sé che si era andata creando nel tempo fosse doloroso e insopportabile per lui: da autore consapevole del peso delle parole racconta quanto fosse più facile.

Non parla di quanto l’altro da sé, quella faccia che gli hanno appiccicato le circostanze, la storia, l’opinione degli altri, gli stia stretto o sia per lui soffocante: confessa piuttosto quanto lo tenga al sicuro, al riparo, protetto.

E poi prosegue e si rivela:

«Ma soprattutto avevo nostalgia […] di un nuovo inizio»

Ecco dunque a cosa serve un altro sé per chi non sia in fuga da se stesso: a ritrovare, nelle variazioni di possibilità concesse dalla nuova forma di sé, un nuovo inizio. Non per ricominciare, ma per proseguire nella propria storia con tutto ciò che di nuovo può portarci l’alter ego.

Ajar ha dato a Gary una diversa lingua, una diversa semantica, un diverso stile per raccontare le sue storie, nonché l’occasione per rimettersi in gioco oltre il tracciato della propria storia passata.

Clark Kent ha dato al super uomo venuto dallo spazio la vulnerabilità e l’emotività tipicamente umane.

The Mask ha dato al timido e timoroso Stanley la faccia giusta per esprimere i sentimenti, anche i più irriverenti.

Batman ha dato all’isolato e schivo Bruce l’occasione per coinvolgersi con le persone e nel mondo.

Post Scriptum

In questi giorni ho realizzato che Coaching in fabula è in tutto e per tutto il mio alter ego: è me nell’essenza, ma per fortuna non soltanto me. Ospita la mia storia passata, ma è ogni giorno l’inizio di quella futura. Mi toglie dalla protezione dell’immagine di me a cui mi è facile aderire (appartata, introversa, quella che sta dietro le quinte) e mi fa osare quotidianamente qualcosa di nuovo.

In conclusione, se c’è una sfida che stai cercando di cogliere da tempo ma qualcosa ti trattiene sulla soglia, prova anche tu a domandare aiuto a un alter ego che sia:

• come te nell’essenza e più di te nell’espressione

ricco della tua storia passata e gravido della tua storia futura

pronto a osare (e a usare!) qualcosa di nuovo

E per questa Pasquetta, ti auguro buona moltiplicazione!