«Scrivere è riscrivere»: l’ho vergato in inchiostro rosso sulla prima riga della prima pagina del quaderno delle lezioni di editing.
Una pagina che comincia a battere il suo tempo e a ingiallire al contrario del concetto che mi risuona sempre validissimo.
Anche adesso, mentre son qui che cerco di ordinare – per poterli condividere e perché non restino lettera morta – i pensieri convulsi degli ultimi due giorni.
Sta funzionando così il blog versione 2020.
Come un diario aperto di riflessioni che non avrebbe senso fare senza interlocutori con cui mettersi in crisi e interrogarsi.
Come un #jouBlog (come ho iniziato a definirlo ironicamente su Instagram) che ricorda qualcosa che c’era e non c’è più: i paleozoici ju(ke)box che nessuna delle persone intorno a me ha mai pronunciato in questo modo; e i blog dell’era mesozoica del digitale, un mix tra il diario personale (il journal) e i “non ho i soldi per fare terapia, ma questa cosa del vomitare nell’etere le mie paranoie inizia a funzionare”.
175 parole scritte (fino a funzionare) per raccontare cosa succede qua dietro, nella parte che non si vede ma c’è.
Nella parte che non si vede ma c’è, scrivo molto. Ogni giorno, a voler essere precisa.
A volte scrivo per lampi e suggestioni. Altre fermo incipit di qualcosa che non so bene cosa sia, cosa diventerà, né se lo diventerà.
La maggior parte delle parole che scrivo, però, sono dettate dai pensieri ape.
Li definisco così perché ronzano operosi e instancabili, e come api s’annidano nella mente e lì costruiscono i loro alveari.
La differenza tra i micro mondi costruiti dai pensieri ape e gli edifici creati dalle api vere e proprie è che gli alveari mentali non sono sempre sensati, funzionali ed ecologici.
I pensieri ape sono molto meno disciplinati e organizzati degli insetti ape.
Non sempre sanno quale sia lo scopo e il compito del loro muoversi. Ciononostante si muovono. Agiscono; soprattutto una certa influenza.
I pensieri ape che mi hanno ronzato in testa negli ultimi due giorni riguardano tutti la situazione contingente, e in particolare la paura.
La paura colpisce tutti, ma non è la stessa paura per tutti
Basta osservarci, leggerci e ascoltarci in questi giorni.
C’è chi ha paura di qualunque cosa non possa controllare in modo diretto (il virus, le cure, le disposizioni ministeriali…)
Chi ha paura per sé. Chi ha paura per sé e per l’altro. E c’è chi ha paura dell’altro.
Perché l’altro rappresenta un canale di contagio, o perché all’altro non si riconosce compostezza e sufficiente senso civico e di responsabilità.
C’è poi chi ha paura dell’altro che ha un ruolo autorevole e vive nell’angoscia che non sappia proteggerlo, tutelarlo, guidarlo. Dell’altro che occupa una posizione strategica, come gli operatori del settore medico sanitario: saranno abbastanza vigili, combattivi, compassionevoli per prendersi cura di me e dei miei cari?
La paura colpisce tutti, ma non è la stessa paura per tutti. Non lo è in termini di focus, perché l’oggetto su cui si focalizza dipende dal soggetto che focalizza; e non lo è in termini di livelli di concentrazione .
La paura non si palesa mai in un ambiente neutro
La paura è un’emozione che si inserisce, o si sovrascrive, in un ecosistema.
Se nel mio ecosistema i livelli di allerta sono alti già da tempo (perché sto attraversando un periodo particolarmente difficile; perché si sono inanellati una serie di imprevisti e incidenti; perché non faccio che ricevere, da mesi, notizie preoccupanti; perché sono un soggetto particolarmente sensibile o inquieto o…), il presentarsi di un nuovo stimolo ansiogeno mi porterà inevitabilmente a picchi d’allerta estremi.
Tanto estremi da indurmi a filtrare ogni pensiero e ogni azione attraverso quella lente di distorsione della realtà che è, appunto, la paura.
La paura distorce e distrugge
Ci sarebbe da chiedersi quale realtà esattamente distorca: quella alla quale credo io, quella alla quale credi tu, quella alla quale crediamo in 1000, 20000, 300000, 4000000?
È una domanda troppo esistenziale e metafisica. Un pensiero ape difficile da fermare, e soprattutto poco utile in un contesto in cui è l’inafferrabilità delle risposte a far partire la brocca a tantissime persone.
Meno esistenziale e metafisico è andare invece a vedere cosa distrugga e come lo faccia.
In guerra o in emergenza, il primo a essere bombardato o chiuso è sempre il teatro (come in Vogliamo Vivere, di Lubitsch).
Quando il teatro crolla, non ci sono copioni da seguire, gli attori perdono il ruolo e calano la maschera, e non esistono più quinte dietro le quali poter tenere nascoste le parti trascurate di sé.
Parti poco utili alla drammaturgia del personaggio in scena. Parti sofferenti che a un certo punto si è rinunciato a guarire, preferendo nasconderle, adulterarle e travestirle.
E questo vale anche per me.
Devo lavorare il doppio in questi giorni. E non come coach, ma come essere umano. E non sono l’unica.
A tutti in questi giorni è richiesto un doppio, o triplo turno
È richiesto a medici e infermieri, per ovvie ragioni.
Ed è richiesto alla nostra capacità di renderci consapevoli e responsabili. Consapevoli che ogni azione e parola che uscirà da noi, avrà un peso non soltanto sulla nostra storia, ma anche sulla storia di qualcun altro.
Consapevoli e responsabili quando scriviamo sui social panzane come quella secondo la quale la probabilità maggiore o minore di contrarre il virus dipenda da dove si abbia la Luna nel tema natale.
(Io non lo so dove stia la Luna nel mio tema natale. So però cosa stava facendo nell’esatto momento in cui ho letto ‘sto delirio: girava. Tantissimo).
Ci è richiesto un doppio o triplo turno nell’impegno a essere umani migliori.
E non perché, come ho letto in più di qualche parte, siamo nell’Inferno del virus Corona. All’Inferno le anime sono dannate e condannate a un fine pena mai.
Noi, invece, siamo al Purgatorio, e la direzione che prenderà l’anima una volta uscita di qui dipende unicamente dalle scelte di parola e di azione individuali che facciamo qui e adesso.
Essere umani migliori vuol dire essere una comunità di persone che si impegnano, uno per tutti e tutti per uno, a mettere ordine nei pensieri ape.
E questo significa anche non scrivere e fare la prima stronzata che ci venga in mente perché siamo furiosi e spaventati.
Però scriviamo, sì. Scriviamo tutti, tanto. Perché scrivere aiuta a tirare fuori quel che deve uscire, nel bene e nel male, di piacevole o spiacevole.
E poi leggiamo e riscriviamo. Perché riscrivere ci aiuta a vedere i nostri mostri, a dare voce alle parti che stavano dietro le quinte e a prenderci cura di loro.
E infine, rileggiamoci e riscriviamoci ancora prima di metterci sul palco. Facciamolo per darci la possibilità di correggere i nostri refusi che è una forma di rispetto verso se stessi e la propria paura, e verso l’altro e la sua.
Post Scriptum
Per scrivere, non serve un sito, un editore o un pubblico. Bastano un quaderno, una penna e un incipit che comprenda una delle quattro emozioni di base («Ho paura di/che…», «Mi disgusta…», «Mi fa incazzare che…», «Mi sento triste quando/se…») e un po’ di tempo. Oggi non puoi proprio ribattermi che non ne hai.