Nel raccolto dei racconti di giugno: Cappuccetto Rosso è il lupo

Quand’è che prendiamo coscienza di essere altro da quel che l’altro vorrebbe fossimo?

Perché avvertiamo come male il seguire il nostro mistero, e bene l’abdicare alla nostra natura più originale?

Certo, quando siamo piccini e ci raccontano, o leggono, una storia, tutte queste domande non sono così cristalline nella nostra testa. Eppure, mentre siamo lì che ascoltiamo, qualcosa dentro di noi si muove.

Per i protagonisti e le vicende delle fiabe che incontriamo, proviamo ora terrore e sgomento, ora affetto e simpatia. Io, confesso, ho avuto per anni una vera e propria antipatia per Cappuccetto Rosso.

La prima volta che ho ascoltato la fiaba credo anche di aver pensato che la protagonista fosse insipida. Mi dicevo: tutto ‘sto casino del lupo, del bosco, del cacciatore, per…? Per niente! Perché, se ci pensi, Cappuccetto Rosso parte da casa come una ragazzina ingenua e un po’ svampita, e ritorna a casa come una ragazzina ugualmente ingenua e svampita, per di più addomesticata. Che favola di merda!

Non è sempre la stessa storia

Finché non sono approdata all’università, di questa fiaba conoscevo soltanto la versione dei fratelli Grimm.

Molto in breve: la ragazzina, mandata dalla mamma a far visita alla nonna allettata che vive al di là del bosco, viene inghiottita, insieme alla povera nonnetta, dal lupo cattivo il quale, dopo il lauto pasto, cade in un profondo sonno postprandiale. Un cacciatore di passaggio, attirato dal forte russare della bestia, irrompe nella casetta della nonna dove, prima di sparare all’intruso, s’accorge, non si sa bene come, che dentro la pancia dell’animale ci sono la nonnina padrona di casa e la nipote. In un battibaleno l’uomo libera le due malcapitate che, non appena uscite dal ventre ferino, perfettamente integre, mettono in atto la loro vendetta riempiendo la pancia del lupo di sassi così che il lupo, una volta risvegliato, muoia.

Finale felice – un po’ meno per il lupo – e moralina: «Ok bambina, nonostante le raccomandazioni hai dato retta al lupo e hai fatto la tua cazzata, ma per fortuna un magnanimo adulto di rifermento ti ha salvata offrendoti una seconda occasione, e tu che, da brava, lo hai capito, d’ora in poi righerai dritto. È vero che lo farai?»

Ed ecco che a questo punto la piccola me, ma pure quella un poco più grandicella, avrebbe dato volentieri fuoco al libro e alla nonna: sia quella della fiaba, sia la mia che contandomela stava chiaramente tentando di addomesticare me.

La Cappuccetto Rosso di Perrault

Nella versione di Perrault, più antica, più corta, apparentemente più pessimista perché priva di redenzione, Le petit chaperon rouge si ritrova, nel finale, semplicemente inghiottita dal lupo.

Nella stesura dei Grimm troviamo un impianto classico: l’eroe, nel caso specifico l’eroina, varca la soglia (in questa storia si tratta proprio della soglia di casa); si avventura in un mondo che non conosce (il bosco) in cui vigono regole che le sono oscure (le leggi di natura) e che deve imparare a proprie spese (perdita dell’innocenza, rischio della vita) così da diventare un adulto ‘normalizzato’ (l’eroe rientra nel proprio mondo educato ad attenersi al codice condiviso dal clan).

In questa versione, in pratica, l’elisir che Cappuccetto Rosso, dopo l’avventura spaventosa nel mondo straordinario (il bosco, il regno del mistero), riporta nel mondo ordinario (la famiglia, la società), è l’obbedienza.

La Cappuccetto di Perrault, invece, s’avventura e non torna indietro. Quella terra incognita che è la selva, luogo in cui tutte le grandi menti e i grandi eroi si perdono, compreso Dante, diventa, nel momento in cui decide di lasciarsi divorare dal lupo, il suo nuovo mondo, la sua terra.

E la magia si compie proprio in quella parola: decide.

Bisogna disobbedire per incontrarsi

In entrambe le redazioni, pur messa in guardia dalle insidie del bosco, l’incontro con il lupo in primis, quando Cappuccetto incontra la bestia che fa? Scappa? La prende a sassi? Finge di essere un papavero? No! Si ferma e ci si mette a fare due chiacchiere. Non solo: al lupo lascia persino il suo numero di telefono – quello vero, non quello farlocco che si dà per levarsi d’impiccio – e gli manda pure un Whatsapp con la posizione della casa di nonna.

Ok, l’originale non è proprio così, questa è una Cappuccetto del terzo millennio, ma i fatti, anche spostati di qualche secolo, rimangono grossomodo questi.

Nella variante dei Grimm, Cappuccetto pare davvero una ragazzetta sprovveduta, un poco sciocca, indubbiamente immatura, che ha ancora bisogno che la salvezza arrivi da fuori, dall’altro.

Volendo soffermarsi sulla lettura che vede nel riemergere della fanciulla dalla pancia del lupo il simbolo di una seconda rinascita, saremmo comunque di fronte a un parto cesareo, a una seconda nascita imposta e governata da altri.

Nella traduzione di Perrault, considerato il finale, la ragazzina, tutt’altro che ingenuamente, sembra ammiccare al lupo, sedurlo, provocarlo: «Vieni a prendermi!»

La Cappuccetto di Perrault vuole incontrare il lupo. Vuole conoscerlo. Vuole farsi irretire e divorare. E lo vuole non perché sia sventata, ma perché ha capito che quell’incontro, così fuori dalle regole e dal codice familiare, e quindi sociale, è il punto di svolta del suo cambiamento: da bambina obbediente ad adulta eretica. Da ragazzina condiscendente, a giovane donna consapevole.

Consapevole di che? Be’, tanto per cominciare di non essere una protesi della mamma e della nonna. Di non essere soltanto un tramite di informazioni generazionali, ma di portare con sé e in sé una nuova essenza. Un’essenza fatta di mistero, di lati oscuri ancora da comprendere; di ferocia, anche.

Metamorfosi

La Cappuccetto Rosso che mi piace sceglie e si prende la responsabilità delle proprie scelte. Soprattutto, è capace di mutare di forma e di sostanza. Ha il coraggio di fermarsi a parlare con la sua parte ferina e, senza timidezza o timore alcuno, darle un appuntamento. Come a dirle: «Non sono ancora pronta a rinunciare alla sicurezza delle regole che mi sono state date, ma se ci vediamo tra un po’, alla fine della foresta che devo attraversare (e che rappresenta lo spazio di distacco e solitudine necessario per entrare in ascolto di sé), posso fare parte di te e tu puoi fare parte di me».

Le metamorfosi non sono mai gentili, delicate, lievi. Le ossa si spezzano. Le carni si lacerano. La nostra personalità viene masticata dalle fauci del cambiamento. Ma un lieto fine, anche quando sembra non vi sia speranza, c’è sempre. Liete, d’altra parte, erano anticamente le vegetazioni e le colture che crescevano rigogliose. E perché possa crescere il frutto, il seme si deve pur spaccare. Questo, in poche parole, il raccolto del racconto di Cappuccetto Rosso, il suo messaggio.

Be’, il messaggio che è arrivato a me, almeno. Il tuo sono curiosa di leggerlo qui sotto nei commenti: raccontami di quando hai capito che non non volevi tornare indietro ma, dopo il bosco, proseguire oltre; di quando hai dato appuntamento al tuo lupo e di come siete diventati un’unica cosa.

E se hai una fiaba del cuore e ti piacerebbe ‘rileggerla’ con me, scrivimi il titolo.


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