Venerdì 13 novembre, in barba a tutte le superstizioni di vecchia e nuova generazione, è tutt’altro che un giorno minaccioso e funesto: dal 1998, infatti, in questo giorno si celebra la Giornata Mondiale della Gentilezza.
Forme di gentilezza
«Sia gentile, – chiede l’anziana signora accanto a noi in una corsia del supermercato – mi prenda quel pacco di caffè lassù lei che ci arriva»: e la gentilezza prende la forma del mettersi a servizio.
«Fammi la gentilezza di toglierti di torno!», chiosa la ragazza arrabbiata: e la gentilezza diventa accettazione.
«Gentilmente, ci spieghi meglio questa sua tesi», incalza il docente in sede di esame: ed ecco che quel gentilmente diventa occasione per condividere, ma anche per mostrare e dimostrare.
«Tanto gentile e tanto onesta pare […]: agli occhi di un Dante in pieno struggimento amoroso, a catturare lo sguardo e ad ammutolire le bocche di chiunque la veda anche soltanto passare non sono né il bell’aspetto né le curve seducenti di Beatrice, bensì la sua onestà e gentilezza.
Le forme contano, sì, soprattutto se son quelle dei pensieri che esprimiamo in gesti e movimenti quotidiani.
E nel quotidiano, le persone gentili, di quella gentilezza garbata, spontanea e per nulla affettata, ci piacciono: ma perché?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo fare un piccolo viaggio etimologico dentro la parola gentile.
Se ti va di salire a bordo, salta su e viaggia leggero: il bagaglio lo riempiamo insieme lungo la via.
Perché gentile?
Nell’antica Roma le persone venivano identificate attraverso il praenomen, ovvero un nome proprio (come Carlotta, Lisa, Francesca, Andrea…); il cognomen, che stabiliva l’appartenenza a una specifica famiglia (com’è tutt’oggi per il nostro cognome); e infine il nomen, che indicava il clan di appartenenza della famiglia, la gens: una specie di famiglia allargata, di secondo livello, sociale.
Coloro che appartenevano alla medesima gens avevano reciproci doveri, responsabilità e diritti, compresi, in mancanza di discendenza diretta, quelli ereditari.
Le relazioni tra “gentili”, che si conoscessero o meno, che si frequentassero oppure no, erano quindi – sempre e comunque – relazioni di mutuo aiuto e soccorso e per certi versi fraterne, più che non quelle tra persone afferenti ad altre gentes.
Ma se togliamo dalla mappa di significati possibili l’appartenenza a una gens, cosa ci orienta, oggi, verso un comportamento gentile?
La gentilezza fuori dal mito di se stessa
Dalla Roma antica ai giorni nostri, la parola ‘gentile’ ha travalicato i confini della gens di riferimento, mantenendo però il richiamo alla fratellanza intesa come disponibilità verso l’altro e i suoi bisogni, e aggiungendo nello scorrere delle epoche nuove sfaccettature significanti: cortesia, delicatezza, garbo, dolcezza, solo per citarne alcune.
Tuttavia, se chiudiamo gli occhi e cerchiamo di figurarci una persona gentile – e dunque garbata, delicata, dolce e cortese come si vorrebbe nell’immaginario collettivo – forse ci verranno in mente non più di due o tre fra amici, conoscenti o sconosciuti noti; e c’è da sperare che intorno a noi il numero delle persone gentili sia ben più grande.
Quindi, cosa fa di te, di me, di lei e lui, di noi, persone gentili?
Io ho una mia risposta: una persona è gentile quando esercita sincerità, lealtà, umiltà, ascolto e servizio in tutti i quattro domini fondamentali della vita, fisico, mentale, sociale e spirituale.
La dimensione fisica è la dimensione in cui si generano e si usano le risorse; la mentale è quella dell’apprendimento; la sociale riguarda le relazioni e la spirituale è ciò che ci muove verso missioni più grandi.
Gentilezza è sincerità
Come si può anche solo pensare di essere gentili mentendo?
Sì, ok, le bugie bianche, le bugie ‘a fin di bene’… Ma non sono forse un modo, e non il migliore, per togliersi da un impiccio, per cavarsela, per aggirare un possibile ostacolo e inciampo?
Non credo nelle bugie, né bianche né nere.
Credo nell’errore, nelle scuse sentite, nel sapersi prendere la responsabilità delle proprie scelte. E credo anche negli atti di riparazione e redenzione, nel perdono; e non penso mai a una bugia come a una strategia percorribile per risolvere una situazione. Semmai per procrastinarla.
Presso gli antichi Aztechi la sincerità era non soltanto auspicabile, bensì indispensabile: essi infatti erano persuasi che le persone non nascessero con un volto in dotazione, ma dovessero conquistarsene uno nel tempo. Per farlo, un azteco doveva dire sempre la verità poiché solo la verità gli avrebbe dato una faccia con cui potersi presentare agli altri.
Anche qui da noi, oggi, diciamo di qualcuno che venga smascherato nelle sue menzogne che ha «perso la faccia»
Colui o colei che mente, a se stesso o a se stessa come ad altri, non può essere gentile, perché le bugie ostruiscono i canali della comunicazione (prova a parlare senza avere un volto, se ci riesci!), e senza comunicazione non c’è fiducia, e in un terreno senza fiducia la gentilezza non attecchisce.
La gentilezza è lealtà
Non so quando o come sia accaduto, magari un giorno approfondirò e ci scriverò su, ad un certo punto, però, la parola lealtà ha assunto il significato di devozione, e in certi ambiti di devozione fanatica.
E allora, prima di continuare il discorso, si rende necessario che io scriva nero su bianco cosa intenda quando tiro in ballo il concetto di lealtà.
La miglior definizione di lealtà, la migliore per me sia chiaro, l’ha data Piero Ferrucci: lealtà è la «capacità di durare anche nei momenti difficili e scomodi»
Ma cos’è che deve durare in questi momenti? Il supporto, l’amicizia, la presenza, il calore, l’ascolto, l’aiuto quand’è possibile, l’accoglienza, il legame.
La lealtà crea continuità nella storia, e onora la storia anche quando sarebbe più facile seguire altri filoni, rispondere a richiami più promettenti, interrompere per qualcosa che diverta di più, consoli di più o ci faccia sentire meno responsabili.
In assenza di lealtà tra noi e le persone intorno a noi e tra noi e le parti di noi, siamo separati, scissi, confusi, caotici e dispersi.
La lealtà crea alleanza, che a sua volta crea unione: di forze, di intenti, di idee.
La lealtà prepara il terreno ai progetti comuni per il bene comune.
Non è forse un mondo gentile un mondo che funziona così?
La gentilezza c’è se ci sono umiltà e ascolto
Umiltà e ascolto camminano sempre tenendosi per mano. Lo hai notato anche tu?
Le persone che non frequentano né l’una né l’altro di solito si riconosco perché:
• più che praticare gentilezza praticano condiscendenza;
• preferiscono le risposte alle domande, soprattutto quando le risposte iniziano con «io»;
• amano sfoggiare quel che sanno e di quel che non sanno cercano immediatamente la falla;
• competono, anche se la gara è una gara tra collezionisti di sfighe, rogne, malanni e disastri;
• usano due pesi e due misure a seconda che si tratti dei loro risultati o di quelli di altri;
• quando ce la fanno, è perché sono stati bravi o brave, quando ce la fa qualcun altro, è stata fortuna;
Le persone che frequentano umiltà e ascolto non sentono il bisogno di occupare tutto lo spazio intorno a sé, né di primeggiare per giustificare la propria esistenza: sanno che non possono saperla lunga su la qualunque, e si mettono più volentieri nella posizione del principiante che non nel ruolo del maestro.
E anche quando nel ruolo del maestro ci sono per esperienza, sapere e conoscenza, non dimenticano mai che ciascuno degli allievi che hanno di fronte è un portatore prezioso di nuove informazioni, di nuove domande e lezioni da imparare.
Chi frequenta ascolto e umiltà sa mettersi in quella condizione di vulnerabilità che è il punto di vista dell’altro; sa cioè mettersi nei panni altrui spogliandosi dei propri, rinunciando così alla sicurezza del riparo noto in nome delle possibilità che si aprono nell’accoglienza del nuovo, dell’altro, del diverso, dello straniero.
Pay it forward: il servizio della gentilezza
C’è una storia bellissima nella biografia di Benjamin Franklin.
Nel 1784 il quasi ottantenne padre fondatore degli Stati Uniti d’America riceve una lettera con una richiesta di aiuto economico dall’amico Benjamin Webb.
Franklin acconsente ad aiutare l’amico e in cambio gli chiede di considerare l’aiuto non come un dono o un prestito da restituire all’emittente, bensì come una buona pratica da disseminare.
Quando ti sarai ristabilito, – scrive in soldoni Franklin a Webb – e incrocerai sul tuo cammino qualcuno nella medesima situazione di bisogno in cui ti trovi tu oggi, farai con quella persona ciò che io oggi ho fatto con te: l’aiuterai chiedendole di restituire il favore a una quarta persona.
Nel panorama di Franklin, gentilezza non è fare qualcosa per qualcuno che poi ci restituirà il favore, (questo, al massimo, è baratto), ma è fare qualcosa di buono per qualcuno, punto.
E se questo far qualcosa di buono per qualcuno scatena un movimento, porta alla costituzione di un Pay it Forward Day, o una visione di comunità e di città diverse da quelle in cui abbiamo vissuto per anni, tanto meglio!
A me sembra un meraviglioso punto di vista, e a te?
Il mio Pay it forward per tempi difficili
Il 28 aprile, giorno del Pay it Forward, è lontano, ma non credo che questo sia il momento di stare a far le pulci al calendario e alle ricorrenze.
Voglio rendermi utile, adesso.
Voglio farlo senza sfruttare le paure, il senso di vulnerabilità e i bisogni di nessuno.
Voglio farlo con gentilezza perché voglio un mondo più gentile.
Quindi, se hai bisogno di parlare con qualcuno che abbia gli strumenti per aiutarti a riordinare le idee, per chiudere un capitolo che va chiuso e aprirne uno che chiede di essere aperto, per ritrovare il tuo centro, metto a disposizione, da qui a fine 2020, una consulenza gratuita a settimana.
Come candidarti a PIF
Ogni venerdì sera (intorno alle 18) pubblicherò nelle storie di Instagram l’apertura alla candidatura per una consulenza gratuita che faremo la settimana successiva.
Per candidarti non dovrai fare altro che rispondere alla chiamata e scrivermi in DM, entro un’ora dalla pubblicazione della storia, raccontandomi di te, di quale nodo nell’intreccio sta tenendo in ostaggio la tua storia e di come passerai il favore a tua volta.
Non ha alcun valore che tu sia la prima persona a candidarti, o l’ultima: sceglierò dopo aver letto tutte le risposte, in base agli strumenti davvero disponibili nella mia cassetta degli attrezzi.
Perché, lo abbiamo detto all’inizio, per essere gentili serve sincerità, e se in tutta sincerità penserò di non essere la persona giusta per te, preferisco lasciare spazio a chi potrà davvero fare la differenza.
E se a te non serve, ma vuoi fare un’azione gentile: passa il favore, o almeno parola!