Ci sono molte analogie tra un lavoro di editing, su una sceneggiatura per esempio, e quello di rebranding su un business.
Prima fra tutte la fatica degli autori nell’affrontare un processo che in fondo li mette faccia a faccia con i buchi, le mancanze e i problemi di una storia già scritta e in un certo senso percepita come conclusa.
Ma forse ti stupirà ancora di più scoprire che anche le motivazioni che portano uno sceneggiatore a fare editing, e due Partite Iva come potremmo essere tu e io a iniziare un rebrand, sono del tutto simili.
Problematiche speculari
L’editing di una sceneggiatura si fa il più delle volte a sceneggiatura finita e in alcuni casi anche durante la prima stesura, benché si tratti di un tipo di lavoro un pochino diverso dall’editing ‘puro’; in linea generale l’editing si rende necessario quando un autore o un autrice pensa, sente, percepisce o sa di:
- avere in mano una bella storia che però non funziona
- avere in mano una bella storia che non ha più voglia di scrivere
- avere in mano una bella storia che però non le/gli piace più
- avere in mano una bella storia che non sa come portare avanti
E quand’è che si fa un rebranding di solito? Quando un professionista o un’azienda pensano, percepiscono, sentono o sanno di:
- avere in mano un bel progetto di business che però non funziona
- avere in mano un bel progetto di business su cui non hanno più voglia di lavorare
- avere in mano un bel progetto di business che però non piace più loro
- avere in mano un bel progetto di business che non sanno come portare avanti
Impressionante, vero?
Bella storia, ma non funziona
Do per scontato, anche se so che non sempre lo è, che chi si prende la briga di scrivere un romanzo, una sceneggiatura, una drammaturgia o una poesia, sappia prima di tutto scrivere.
Non do per scontato che sia un talento mozzafiato magari, ma che abbia un suo perché, un suo stile, anche grezzo e migliorabile, sì.
È chiaro che una storia scritta da qualcuno che non abbia alcuna competenza di scrittura è altamente improbabile che funzioni. Questo però non significa che quel qualcuno debba appendere la penna al chiodo: le competenze si acquisiscono e il talento si allena. Ma ogni cosa ha i suoi tempi e il suo tempo.
Date quindi per scontate le fondamenta, una sceneggiatura spesso non funziona perché:
• non si capisce dove voglia andare a parare
• non si capisce su quale domanda drammatica si regga
• non è chiaro quale punto di vista racconti
• non è chiaro di chi sia il punto di vista
Il lato B come Business della faccenda
Allo stesso modo, date per scontate le basi, ovvero che il professionista sappia fare quel che fa, anche un buon progetto di business far a decollare, arenarsi o tracollare se:
• non si capisce per bene quale/quali problema risolva
• non è chiaro come li risolva
• non fa capire ai possibili clienti dove si colloca (quale sia la sua visione, quali valori sposa, quali sono le sue lotte)
• non dà modo ai clienti di collocarsi, quindi di sentirsi coinvolti, all’interno del progetto
Quando si crea un mondo in cui vogliamo fare entrare le persone, nel quale desideriamo che abbiano voglia di restare, non possiamo invitarli – sempre – a un appuntamento al buio.
Certo la suspense, un po’ di segretezza, il gioco della mancanza… tattiche di marketing che possono funzionare se usate di tanto in tanto. E sottolineo di tanto in tanto, perché se al tavolo in cui mi inviti c’è sempre e solo un posto a sedere disponibile, dopo un po’ potrebbe venirmi spontaneo rispondere al tuo gentile invito con un: «Grazie, ma facciamo che ripasso quando allarghi la sala»
Bella storia, ma non ho più voglia di scriverla
Cosa spinge un autore a prendere in odio la storia alla quale sta lavorando?
A volte, la frustrazione delle aspettative: quando ha cominciato pensava sarebbe stato più facile, divertente, stimolate, remunerativo… O forse si aspettava più appoggio dal suo agente, dalla famiglia, dal mentore.
Ho conosciuto autori che hanno procrastinato fino al parossismo, cominciando a lavorare sulla loro storia dopo anni di «Prima o poi la scrivo» e quando si sono messi lì a farlo, a metà strada si sono accorti che quella storia o quel genere, o entrambi, non erano più nelle loro corde.
Un autore, o un’autrice, potrebbe perdere la voglia di continuare a scrivere perché il desiderio di farlo è debole in partenza o poggia su pilastri farraginosi: mi metto a scrivere perché so farlo; mi metto a scrivere perché fa figo; mi metto a scrivere perché mi piacciono gli scrittori e le scrittrici; mi metto a scrivere perché alcune persone mi hanno detto che potrei farlo.
Il lato B della voglia
Anche in questo caso, se facciamo il parallelo con il business, vediamo che accade lo stesso.
Se vogliamo andare avanti nel nostro progetto professionale ma abbiamo perso la motivazione, possiamo provare a lavorare sul ridimensionamento delle aspettative («cosa mi ha fatto credere che fosse più facile, più divertente, stimolante, remunerativo…?») e sull’accettazione della frustrazione (è una condizione, non è costituzione, quindi può arrivare certo, ma come arriva se ne va).
Se vogliamo proseguire, è anche bene ricordare a se stessi che qualche volta la voglia di andare avanti viene a mancare perché non è sostenuta da un aggiornamento delle idee. Perché sì, le idee possono cambiare, anche in corso d’opera. E cambiare idea è meglio che nutrirne una già cadavere. Che poi si sa come va a finire con gli zombie: c’è sempre qualcuno che ci rimette la testa, e non è detto che sia il nonpropriomorto.
Bella storia, ma non mi piace più
Succede che si cambia, appunto. Idea, obiettivo, gusto.
Accade che un Camilleri possa scocciarsi di un Montalbano e decida di abbandonare il giallo per darsi al romance.
Un autore lascia un personaggio, un genere, una saga perché la esaurisce, o meglio: esaurisce tutto ciò che aveva da dire e smuovere attraverso quel personaggio, quel genere e quella saga.
Ma può anche lasciarlo perché trova finalmente il coraggio di dire no a chi – editore, agente, versione in carne e ossa di una Kathy Bates – lo vuole incasellato lì dov’è: in quelle storie, in quello scaffale, in quel punto della classifica dei libri venduti (letti, chissà…), in quel range di incassi sicuri.
Il lato B del gusto
Nel business avvengono le stesse cose: qualcosa che abbiamo fatto per cinque, dieci o vent’anni non ci piace più.
Forse ci annoia perché ci sembra di non avere più nulla da imparare, perché ci sfida poco.
Magari ci drena perché è diventato un settore pieno di avvoltoi e noi non abbiamo voglia né di farci predatori né di diventare pasto.
Può anche essere che quando abbiamo scelto di fare certe cose in un certo modo, ci siamo lasciati manipolare dalle nostre paure o da quelle altrui, o dalle richieste più o meno implicite, o dall’idea di non avere possibilità diverse.
Se la storia del tuo business non ti piace più hai almeno due alternative: cambiarla o lasciarla andare.
La mia esperienza mi dice che molte crisi possono essere sanate e che il più delle volte non sono nemmeno vere crisi, bensì l’ormai noto modo un po’ melodrammatico e teatrale che usa la nostra Brooke interiore per costringerci a portare l’attenzione alle emozioni che ci abitano e che di solito evitiamo.
Ci sono invece crisi vere che arrivano per essere cavalcate e per portarci in un posto nuovo, dove, almeno per ora, sappiamo di poter ritrovare nuovi stimoli, idee e motivazioni.
Bella storia, ma come proseguo?
Il blocco dello scrittore non è sempre legato al blocco delle idee. Uno scrittore potrebbe non mancare affatto di idee ma averne addirittura troppe e trattarle come se da un momento all’altro potessero scappargli da sotto il naso o andare dalla concorrenza se non trova il modo di metterle subito a frutto.
Molte volte gli autori si bloccano perché esagerano: per paura che la storia risulti banale o povera, la complicano inutilmente aggiungendo sottotrame, personaggi secondari, linee narrative del tutto accessorie che servono poco o nulla al racconto. E una volta che si trovano in mano tutto questo ben di Dio non sanno come gestirlo.
Alcuni autori, soprattutto i più insicuri e inesperti, tendono invece a pagare dazio al loro mito, al loro guru, scimmiottandone tanto lo stile quanto le tematiche: a lungo andare però, a raccontare storie che non ci appartengono con la voce di un altro, si perde la parola, la penna, l’autorevolezza. E diciamocelo: ci si fa anche una discreta figura di melma.
Dal lato B
Il corrispettivo dell’esagerazione dello scrittore nel business è:
• avere troppi servizi (confondono)
• avere troppi servizi simili tra loro (disorientano)
• avere servizi che appartengono a generi completamente diversi di business (un esempio dalla realtà: faccio massaggi e faccio anche la Instagram coach: nessuno vieta di fare entrambi, ma a prescindere dal fatto che persino per il fisco sono due inquadramenti diversi, conviene avere due brand distinti, ciascuno con la sua comunicazione, il suo pubblico preferenziale…)
• uscire con nuovi servizi troppo spesso (mette ansia)
• mettere troppe cose insieme pur di metterle
Se non sai come proseguire, fermati.
Fermati e cerca di capire da dove arriva il blocco.
Se il problema è che hai esagerato, la sensazione è quella di sentirti sopraffatta, o sopraffatto; affannata, o affannato; in ritardo perenne, costretta o costretto a far saltare spesso i piani.
Se il problema è che ti sei sintonizzata o sintonizzato sulla storia, lo stile e la voce di qualcuno che stimi e ammiri, perdendo però così il segnale delle tue frequenze, la sensazione è più di abbattimento; di frustrazione per non riuscire a tenere il passo del tuo idolo; di scoramento per il retro pensiero di non avere nulla da dire che arrivi davvero da te e solo da te.
Come sempre, hai a disposizione i commenti per raccontarmi ls tua versione della storia e se ti va di proseguire il discorso vis à vis, ci vediamo in diretta su Instagram mercoledì 16 settembre, alle 17:30.