Ieri sono andata a fare la spesa e una volta rientrata ho pianto.
E non ho pianto perché vedere il supermercato praticamente vuoto e svuotato mi abbia impressionata o spaventata. A questo ero preparata e peraltro credo di avere ancora freschi i ricordi dell’alluvione del ’94.
Ho pianto perché la cassiera con la quale da anni scambio parole gentili e sorrisi, ieri non ha nemmeno alzato lo sguardo.
I suoi occhi, un mix tra il terrorizzato e l’inferocito, sono rimasti fissi sul nero del nastro trasportatore per tutto il tempo del conteggio.
Tra noi solo una serie di Bip! Bip! Bip! in mezzo a un silenzio surreale interrotto ciclicamente dall’altoparlante che ricordava ai gentili clienti di non fare troppo gli stronzi e tenere le distanze di sicurezza.
Io l’ho vista ma lei non ha voluto vedere me.
Ho idea che non sia stato un caso, ma una scelta.
Forse non voleva registrarmi come l’ennesimo rischio al varco della soglia di sicurezza per la sua salute. Probabilmente lo ha fatto per evitare di inserire la mia faccia tra tante altre che nutrono i suoi pensieri avvelenati.
Perché quando, in piena pandemia, sei la cassiera di un supermercato a 1000 € al mese, e in pochi ti esprimono la gratitudine e il rispetto che vengono riservati ad altri professionisti che in questi giorni permettono a molti di noi di stare a casa, protetti, di pensieri avvelenati secondo me ne hai tanti. Uno per ogni cliente al quale batti lo scontrino, almeno.
Quindi, dicevo, ho pianto.
Per la gratitudine verso di lei, le sue colleghe e i suoi colleghi; da Torino a Wuhan passando per ogni supermercato di ogni Stato colpito.
E per la delicatezza di aver scelto di sottrarmi, sottraendomi dal suo campo visivo, dalla lista dei cattivi. Anche questo un gesto di cura e protezione, perché di odio e disgusto, pur se contagiosi e virali, non si muore, ma possono fare un gran male quando ci colpiscono.
La cassiera del mio supermercato di quartiere è antifragile.
Di lei so che è orfana da molti anni, e per quanto ho capito, oltre al suo compagno, morto un anno fa dopo una lunga malattia, non ha più nessuno.
Nonostante le avversità, ogni volta che abbiamo avuto modo di parlare un po’ di più (il bello dei quartieri paesino come il mio è che non è difficile incontrarsi e socializzare), mi è sempre sembrata una giovane donna luminosa, serena e centrata.
Scrive Nassim Nicholas Taleb che qualunque cosa rimanga integra nel peggiore dei casi può essere definita antifragile.
Lo scrive nelle prime pagine di un libro che si dilunga per altre 500 nel tentativo, riuscito per quanto mi riguarda, di spiegare per bene un concetto che da sola, la breve definizione di poco sopra, non riesce a chiarire del tutto.
Infatti, anche di una cosa robusta e di una indistruttibile possiamo dire che rimangono integre nel peggiore dei casi. Tuttavia, robusto e indistruttibile non sono il perfetto contrario di fragile. Non lo sono secondo Taleb, e le sue argomentazioni mi hanno conquistata.
Ci sono tre miti antichi che secondo il Professore (Taleb insegna Scienze dell’incertezza alla University of Massachussetts) spiegano perfettamente la triade fragilità, robustezza e antifragilità che governa tutte le cose del mondo, compresi gli esseri umani con il loro pensieri e le loro modalità di azione o reazione.
Damocle, la fenice e l’Idra
Narra il mito che il linguacciuto Damocle, cortigiano di Dionigi il Vecchio, non perdesse occasione di far notare al tiranno quanto fosse fortunato a godere del prestigio e della libertà della sua posizione.
E dillo una volta e dillo due volte, Dionigi un bel giorno deve aver pensato: «Anvedi ‘sto stronzetto! Mo je spiego du cosette»
Così Dionigi il Vecchio manda a chiamare Damocle e gli dice: «Senti un po’, regazzi’, famo che pe’ oggi il capo sei te, e io non so’ un cazzo. Stasera vie’ a palazzo all’ora de cena. Te metti a sede bello bello ar posto mio. Te magni tutto quel che te va de magnà. Bevi. Te diverti… Perché c’ho pensato sa’? E ho pensato che c’hai ragione te: so’ tanto fortunato e vojo condivide’ co’ te ‘sta fortuna mia!»
Tronfio come solo uno sprovveduto sa essere, Damocle non deve aver riflettuto mezzo secondo prima di dire sì alla proposta. Infatti, la sera, puntuale come un F24 per l’anticipo dell’Inps, si presenta a palazzo e senza indugio si va ad accomodare al posto a tavola di solito riservato a Dionigi il Vecchio.
Qui incomincia a tastare con mano tutti i benefit del potere: cibo raffinato, servitù, sollazzi… Solamente al limitare della cena, sollevando lo sguardo al di sopra della sua testa, Damocle nota una spada che punta dritta dritta su di lui, sostenuta da un sottile crine di cavallo.
Il crine di cavallo prima o poi si spezzerà, e solo questione di tempo. E gli effetti del suo spezzarsi non saranno piacevoli per Damocle, il quale, spiega Taleb, in questa situazione è fragile.
La fenice
Una posizione ben diversa, invece, è quella della Fenice: l’uccello capace di risorgere dalle proprie ceneri. Sempre uguale a se stessa. La Fenice è l’emblema della robustezza e anche della resilienza. Niente la scalfisce. Nemmeno la morte.
L’idra
E infine c’è l’Idra, una creatura che pare uscita da un romanzo fantasy, un po’ drago un po’ Nessy ma con molte teste. Un essere antifragile per eccellenza perché non soltanto se le si taglia una testa né muore né fa un plissé, ma addirittura per ogni testa che le si mozza gliene crescono due.
L’idra è dunque antifragile perché oltre a non soccombere al danno, usa il danno per crescere, per farsi più forte.
L’antifragilità è la miglior risposta ai Cigni neri.
Altro concetto uscito dalla mente di Taleb:
«Cigno nero (con la maiuscola) è un evento che possiede le tre caratteristiche seguenti. In primo luogo, è un evento isolato, che non rientra nel campo delle normali aspettative, poiché niente nel passato può indicare in modo plausibile la sua possibilità. In secondo luogo, ha un impatto enorme. In terzo luogo, nonostante il suo carattere di evento isolato, la natura umana ci spinge a elaborare a posteriori giustificazioni della sua comparsa, per renderlo spiegabile e prevedibile»
La pandemia da Covid19 sarebbe dunque un Cigno nero e in questa situazione, per continuare a usare le parole del Professore, dobbiamo tirare fuori tutta la nostra parte Fenice, meglio ancora la nostra parte Idra, altrimenti la spada di Damocle ci colpirà.
Il che significa: rialzarsi dal tappeto dopo un gancio destro ben assestato e fare di un epilogo infelice di un capitolo della nostra storia, l’incipit promettente per il capitolo successivo come…
Be’ un tempo avrei scritto come Frida Khalo, Alex Zanardi, Bebe Vio… Oggi scrivo come la cassiera del mio supermercato di quartiere perché se riesce a scegliere cosa preservare in un momento in cui sarebbe più facile odiare tutti, posso solo immaginare cosa sarà capace di fare dopo, quando la tempesta sarà finita.
Intanto mi faccio spugna e assorbo il suo esempio.