«Se ci avessi ragionato su, ora non ti troveresti in questa situazione», non so se per te è lo stesso, ma questa frase, e tutta una serie di simpatiche varianti, me la sono sentita ripetere così spesso che ho perso il conto. E così sono cresciuta nell’incrollabile fede che la ragione può tutto e ha la meglio su tutto.
Fede che si è fatta ancora più forte quando, alle superiori, mi sono imbattuta nel mito dell’auriga di Platone: l’immagine di questo cocchiere, raffigurazione della parte razionale dell’uomo, capace di guidare due cavalli apparentemente indomabili e sfrenati, pensiero ed emozione, mi esaltava. Uso la parola «esaltava» a ragion veduta visto che, oltre che di lettura superficiale di un mito, proprio di esaltazione s’è trattato: quel che ho fatto, in soldoni, è stato infatti prendere un’informazione, esaltarne alcuni aspetti e negarne altri. Il tutto per un unico scopo: dimostrare e giustificare l’idea incontrovertibile di massima potenza della ragione.
Per comprendere che mi stavo aggrappando a una bella storia, ma appunto una storia, e che la ragione non è attore autonomo e gerarchicamente superiore ma, proprio come sosteneva Platone, questa volta per davvero, parte di un complesso equilibrio a tre partiture, mi ci sono voluti anni. E ancora ci casco e, so per certo, ci cascherò in futuro. Non è che io voglia, qui e ora, costruirmi una profezia auto-avverante, è che ho imparato che il cervello funziona così: gran parte dei nostri processi mentali avvengono senza che noi ne abbiamo la benché minima consapevolezza. La ragione di tutto ciò non è da imputare al fatto che siamo dei distrattoni, ipersollecitati esseri del terzo millenio, bensì al fenomeno biologico e naturale per cui il nostro cervello, per non andare in panne, ha imparato ad automatizzare alcune operazioni.
Ti presento l’amministratore delegato
A capo di alcuni settori di questo sistema automatico c’è un amministratore delegato: si chiama autoinganno ed è efficientissimo. Non per nulla ha fatto la carriera che ha fatto.
L’autoinganno è un persuasore occulto e cecchino: uno di quelli che può vendere ghiacciaie in Siberia e scaldini nel Deserto del Lut. E per farlo usa soltanto quattro strategie:
- valorizzazione
- consolazione
- suggestione
- affabulazione
La valorizzazione, anche detta “dare valore per credere”, funziona sul principio dell’asta: tanto più sale, in noi e intorno a noi, la percezione del valore di un’idea o di un oggetto, tanto più ci sentiamo giustificati a cedere nell’acquisto. «Non potevo lasciarmelo scappare, è un oggetto unico nel suo genere», dirà il compratore compulsivo di fronte alle rimostranze contro l’ennesimo acquisto declinabile. «Chi dorme non piglia pesci», risponderà lo stacanovista indefesso quando gli si chiederà di rallentare. «I risultati si portano a casa col sudore della fronte», incita la stoica madre quando il figlio sta per cedere a un momento di pigrizia.
Il meccanismo di questo autoinganno è: se posso giustificare l’azione compiuta, o reiterata, con un sistema di valori, allora il mio comportamento è ok.
Lo mettiamo in atto quando dobbiamo risolvere una dissonanza tra ciò che facciamo, o abbiamo fatto, e la consapevolezza che potremmo, o avremmo potuto, fare anche in un altro modo.
La consolazione, funziona sulla base di una totale mancanza di responsabilizzazione. Usa l’autoinganno della consolazione, per esempio, chi giustifica la propria stronzaggine con il fatto che nel mondo esistano troppe persone stronze e quindi meglio prevenire che curare. Chi trova sempre fuori da sé il perfetto capro espiatorio per ogni azione compiuta o non compiuta, scelta fatta o non fatta, decisione presa o non presa. È un autoinganno pernicioso che sottostà, nei casi più pesanti, a idee e azioni parecchio discutibili, come: «L’ho picchiata perché mi ha provocato». Ma senza scomodare situazioni da denuncia, esiste tutta una serie di scuse un po’ claudicanti che mettiamo sul piano della discussione quotidianamente: «Mangiucchio perché sono nervosa», «Ingrasso perché ho smesso di fumare»; «Non riesco a concentrarmi perché… (l’autunno, l’inverno, la primavera, l’estate. E poi di nuovo, l’autunno, ecc, ecc)».
Il meccanismo di questo autoinganno è: se trovo una causalità, anche minima, tra il mio comportamento e il comportamento altrui, allora sono giustificata, o giustificato, a fare, o non fare, quel che faccio (dire, non dire; pensare, non pensare…).
Lo mettiamo in atto quando percepiamo minacciato il nostro ego e non vogliamo perdere la faccia.
La suggestione e l’affabulazione sono i due autoinganni ai quali, da irresolubile storyteller, guardo con più curiosità. In entrambi i casi siamo di fronte alla creazione di una storia che ci regga il gioco. In ambiente suggestivo, si tratta di una storia che raccontiamo a noi, e soltanto a noi. Tipicamente, per esempio, quando dopo sforzo e impegno non otteniamo ciò per cui ci siamo impegnati e sforzati e quindi finiamo col raccontarci che, in fondo, quella cosa non ci interessava davvero. L’autoinganno dell’affabulazione crea invece storie giustificatorie a uso e consumo di altri. Torniamo a casa dopo un colloquio, e alla domanda «Allora, com’è andata?», rispondiamo «Non mi hanno scelto ma perché al colloquio ho capito che non era il lavoro per me e non mi sono impegnato». «Sì, la parola fine l’ha detta lui/lei, ma era da tempo che cercavo il modo per farlo io». Nel profondo del nostro animo e cuore, non era così che ci aspettavamo andasse, e la verità è che non riusciamo ad accettare di aver perso il polso della situazione.
Il meccanismo è facilmente intuibile: costruire la miglior narrazione possibile a un finale inaspettato di modo che ci dia l’illusione di avere, o avere avuto, il pieno controllo di una situazione.
Mettiamo in atto ora il primo, la suggestione, e ora il secondo, l’affabulazione, quando abbiamo bisogno di giustificare con noi o con altri, un fallimento più o meno reale e dichiarato; quando il «dare valore per credere» non è abbastanza efficace e serve proprio un cambiamento di paradigma che camuffi una caduta o una scivolata in sperimentazione atletica voluta.
Chi inganna Chi
Una domanda che mi viene rivolta spesso, soprattutto quando lascio degli esercizi da fare in autonomia, è:
«Come faccio a sapere che non mi sto autoingannando?». È un ottimo quesito al quale non credo esista una risposta che valga per tutti o che sia definitiva.
Colui il quale inganna colui il quale inganna. Sembra uno scioglilingua, o la storia di: «C’era una volta un re seduto sul sofà che disse alla sua ancella: “raccontami una storia”. L’ancella incominciò: “C’era una volta un re seduto sul sofà che disse alla sua ancella: ‘raccontami una storia’…”». Tuttavia è quello che succede. Lo dicevamo al principio del post: il cervello risponde spesso per noi, prima che ne abbiamo consapevolezza. Lo fa con i suoi schemi, delegando i suoi tanti amministratori che mettono in gioco, ciascuno, un proprio sistema affinato nel tempo.
Ma se è vero che il cervello funziona così, è altrettanto vero che adesso che lo sappiamo possiamo quanto meno operare l’accorgimento (di accorgimento ho parlato anche qui). All’atto pratico significa non tanto pretendere di intercettare tutti questi automatismi, cosa di per sé faticosissima e probabilmente anche folle, bensì lavorare sulla rilettura.
Se riesaminando una situazione (una risposta, un comportamento, una scelta) ti viene il dubbio di aver agito sulla spinta di uno degli autoinganni automatici che abbiamo analizzato insieme poco fa, prova a vedere se passando quella stessa situazione sotto il filtro degli altri tre autoinganni, quelli che non hai usato in automatico per intenderci, riesci a giustificare con la stessa efficacia la tua risposta, il tuo comportamento, o la tua scelta.
Ci riesci con tutti gli altri tre?
Qualcuno funziona meglio?
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