l'estate dentro: imparare a godersi le onde

Si avvicinano le vacanze e quest’anno, rispetto agli scorsi, non vedo l’ora di fermarmi.

È uno strano sentimento per una stacanovista come me. Un sentimento che soltanto qualche settimana fa mi ha fatta sentire ingrata. Sbagliata.

Su questa faccenda dell’ingratitudine e dello sbaglio, ci ho lavorato subito. Da quando mi sono alzata un lunedì mattina pensando: «Oggi me ne starei volentieri a vegetare sul divano, tra una serie di Netflix e una pennica»; e il secondo dopo il mio Inquisitore interiore stava già accendendo la pira sulla quale bruciare me e la mia blasfemia.

Il terreno minato del «devo»

Ogni tanto ci scherzo su e dico che sono stata battezzata con il sacramento del dovere: posso avere 40 di febbre, essere devastata da qualsiasi dolore fisico, avere la pressione di una formica, o l’umore sotto le scarpe, ma il dovere è dovere. Il dovere è sacro. E il lavoro è dovere.

L’anno in cui è morto mio padre, lo stesso in cui la mia tiroide è impazzita, poco prima della serata della finale del festival di mockumentary che organizzavo all’epoca, mi sono ritrovata a piangere per più di un’ora, chiusa in bagno, sotto la doccia.

Ero triste. Avvilita. Stanca e dolorante. Soprattutto ero, fisicamente, in un posto in cui non avrei voluto stare. Non in quel preciso momento, almeno. Ma lo show doveva andare avanti.

Mia madre mi ha cresciuta a pane e resistenza. La nostra vita, la sua prima ancora della mia, in certi momenti è stata così feroce e dura, che sono certa che dicendomi: «Non devi cedere mai, e non devi mai mostrare le tue debolezze», pensasse di fare per me la cosa migliore che potesse fare. Prepararmi all’aggressività del mondo, al male che di certo avrei dovuto fronteggiare; alla cattiva sorte che da bambina immaginavo disseminata sulla strada della vita, come fosse scissa in tante piccole mine. Avrei potuto calpestarne una in qualsiasi momento e l’idea mi atterriva.

Ho quindici anni. È il primo giorno nel nuovo Liceo. Meno reazionario del precedente. Più vicino alla casa nella prateria in cui vivo. Nel senso che era proprio in mezzo al nulla, ai prati.

Una parte di me è emozionata all’idea di conoscere nuove persone, fare nuove amicizie, cambiare abitudini; l’altra mi ripete che probabilmente non riuscirò mai più a stringere legami forti con nessuno. Che di amiche preziose come quelle che ho lasciato nella mia vecchia classe, non ne incontrerò più. Che anche qui i professori non apprezzeranno il mio temperamento vivace e si opporranno al mio spirito critico.

Cammino lungo il cortile cosparso di piccole pietre come se stessi per affrontare un’esecuzione. Quando metterò il piede sulla mina?


Quella parte che chiede soddisfazione

«Se la vita è dura, tu diventa più dura ancora», penso mentre le lacrime scorrono a fiumi e si perdono nello scarico della doccia insieme all’acqua e alla schiuma del sapone.

Il corpo è un fascio di nervi, ho i muscoli indolenziti. Mi fa fatica essere me.

Hai presente la teoria del combatti o fuggi? Ecco, all’Università delle anime, alla lezione in cui spiegavano il fuggi, io ero assente. Così, l’unica risposta automatica al pericolo, o presunto tale, per me è stata, per molti anni, combatti. Non in quella bella e positiva accezione di stand up for; in modo decisamente più oppositivo e conflittuale.

La leggenda familiare racconta che quando da bambina venivo punita per qualche malefatta, al sopraggiungere della sentenza, che poteva essere «non guardi i cartoni per una settimana», «non giochi con Andrea per un mese» (Andrea era il nome del mio bambolotto preferito), io controbattevo sempre con risposte tipo: «Tanto i cartoni sono stupidi e non mi piacciono»; «Tanto Andrea non è più il mio bambolotto preferito»

Non ho mai chiesto uno sconto di pena. Non ho mai dato soddisfazione, come si diceva nei duelli di un’epoca molto lontana da questa. E non ho mai usato strategie di arretramento.

Le mie guerre personali, che si muovessero tra me e me, o tra me e altri, erano guerre di trincea. Qualcuno prima o poi si sarebbe arreso, ma non io, o non la parte di me che pretendeva la ragione.

Inclementina

Ad avere ragione nella maggior parte delle mie battaglie d’anima, è stata per lungo tempo la parte severa e inclemente di me.

Di fronte alla mia vulnerabilità incrociava le braccia e iniziava le sue manovre di assedio psicologico. Le sue armi: i valori che condividevamo. È sempre riuscita a manipolarli e trasformarli in modo tale che, in determinate circostanze, mi si rivoltassero contro.

Quando per un breve attimo mi pareva di poterla battere, o quanto meno pareggiare, lei, la parte severa e inclemente di me, affettuosamente soprannominata Inclementina, si giocava il jolly delle mie carte valore: la coerenza.

Secondo la tradizione ebraica, le parole sono devarim, cose.

Nel libro della Genesi nella Bibbia cristiana, così come nella Bereshit ebraica, Dio crea il mondo attraverso le parole: dice Luce e il giorno si manifesta, dice tenebra e crea la notte. Nomina le cose e le rende tangibili, reali.

E ogni giorno noi facciamo lo stesso: usiamo parole e creiamo mondi. Spesso però, le parole che usiamo, le usiamo superficialmente, conoscendone e riconoscendone solo alcuni aspetti.

Della coerenza, per esempio, io riconoscevo unicamente il lato congruo. Coerente era dunque solo ciò che concordava con il valore, non ciò che poteva metterlo in crisi o falsificarlo.

Le mie guerre di trincea con Inclementina mi hanno insegnato che la coerenza è, più che un valore di per sé, una funzione di valore.

La funzione che ci tiene uniti (che non vuol dire prigionieri o dipendenti) ai nostri valori seguendo principi d’azione dinamica, permettendoci di rimette in discussione scelte e obiettivi, prendendo la forma della nostra vita qui e ora.

Il riposo dell’eroe

Si avvicinano le vacanze e io le aspetto con trepidazione e gioia.

Sono più che certa che ci saranno giorni in cui Inclementina si piazzerà tra me e il mare, e guarderà con aria di disapprovazione la Settimana Enigmistica che sostituirò ai manuali e ai saggi che ancora adesso occupano più di metà della mia scrivania.

Vado in vacanza, e non perché devo staccare, o perché altrimenti chissà che fine faccio. Ci vado perché ne ho voglia. E spero che tu sia colta, o colto, dallo stesso entusiasmo per ciò che sceglierai di fare nei prossimi mesi.

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