Gengo, dare un nome al proprio futuro desiderato

Lo scorso 1° maggio il Giappone è entrato ufficialmente nell’era Reiwa che perdurerà per l’intero periodo del mandato dell’imperatore Naruhito, succeduto al padre Akihito dopo che quest’ultimo, all’onorevole età di 85 anni, ha scelto di abdicare.

Dalla Restaurazione Meiji ad oggi, vale a dirsi dal 1869, i giapponesi hanno attraversato cinque gengo, cinque ere per l’appunto:

  • la Meiji, era del regno illuminato
  • la Taisho, era della grande giustizia
  • la Showa, era della pace illuminata
  • la Heisei, l’era del conseguimento della pace

E infine la neonata Reiwa: l’era della Beautiful Harmony, come ha tenuto a specificare il Governo giapponese in un comunicato formale.

Ma per quale ragione si è resa necessaria una traduzione ufficiale? Me lo sono chiesta e mi sono andata a cercare una risposta nell’immensa enciclopedia della rete.

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Scoperte

Navigando di sito in sito, ho scoperto che i kanji, i caratteri simbolici della lingua giapponese, sono soggetti a diverse interpretazioni poiché ciascuno di essi non funziona come una parola latina, ma come un fraseggio: una piccola storia che più che definire qualcosa, la racconta.

Ho anche scoperto che la denominazione delle ere segue regole ben precise.

La più interessante, almeno per me, è che la parola che identifica una particolare era non deve essere già presente nel vocabolario semantico: ciò significa che i kanji che la compongono, due secondo i dettami, possono essere comuni, ma la loro unione deve dare vita a un significato originale e non esprimere concetti già utilizzati per un gengo precedente.

Dopotutto, se di nuova era si tratta, niente dev’essere già stato: una logica impeccabile!

Un gengo da manuale deve inoltre essere facile da ricordare, scrivere e leggere, ma soprattutto è richiesto che sia portatore di valori d’ispirazione.

Tradizioni iniziatiche

Devo proprio dirlo: mi piace un sacco questa tradizione!

Ha un che di iniziatico che permette di fare i conti con il proprio passato, chiuderlo con un bilancio, e formare e fermare con parole nuove l’immagine del futuro che si desidera.



Mi ricorda un po’ quel che si fa da qualche anno a questa parte in Occidente con “la parola dell’anno”, però meglio.

Perché il più delle volte le vecchie parole non sono capaci di descrivere i nuovi sogni. Molte di queste, poi, sono così abusate e tritate da aver consumato tutta la loro magia.

E anche perché la maggior parte delle cose che contano, non basta certo un anno per realizzarle.

I progetti importanti, così come i processi metamorfici, hanno bisogno di tempo per manifestarsi. In molti casi di lustri o decenni.

Prendi per esempio il diventare genitore. Non accade dall’oggi delle doglie al domani del parto. È un viaggio lungo. Pieno di deviazioni, di croci e delizie; di momenti di sconforto e attimi di perfezione sublime in pieno stile Mulino Bianco.

Lo stesso vale per il diventare coppia, che non coincide con l’accoppiarsi, benché quello sia un punto ineludibile. Poi però ci sono le mile stone topiche: io e te due metri sopra il cielo, due cuori e una capanna, e infine io e te sotto una tempesta di merda. Perché shit happens, ma tu abbi fiducia: qualcosa verrà sempre e comunque concimata.

Come lasciar fuori da questa lista i progetti imprenditoriali che cominciano ben prima dell’apertura della partita iva e di sicuro non si concludono con la prima dichiarazione dei redditi?

Insomma, per manifestare la completezza della propria storia ci vogliono più ere. E ci vuole una linea di demarcazione: una data e un rito che sanciscano la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro.

Ché sì, va bene vivere nel presente, ma perpetrare un presente che ha concluso il suo ciclo di vita, a che pro?

Creare un gengo personale

Creare un gengo personale per ogni passaggio importante della nostra vita, mi sembra uno straordinario esercizio di consapevolezza narrativa. Parlo di narrativa personale, chiaramente.

Serve a metterci in una posizione di ricezione nei confronti del futuro; ad abituarci all’idea che un grande progetto ha bisogno di essere sostenuto da valori altrettanto grandi; a evocare il genio interno strofinandoci l’anima per lucidarla e restituirla al suo antico fulgore.

Negli scorsi giorni mi sono voluta cimentare nella creazione di un mio gengo per dare un nome all’era che ho principiato da un anno e mezzo a questa parte.

Dovendo fare i conti con la lingua italiana, l’espediente linguistico che più mi pareva avvicinarsi al mettere insieme due kanji è il portmanteu, o parola macedonia. Come per esempio: brexit (Britain + Exit), dramedy (drama + comedy), tragicomico (tragico + comico), cantautore (cantante + autore)… E così via.

Per il resto ho mantenuto le regole di base, premurandomi quindi che la parola creasse un nuovo concetto, che non esistesse già sul vocabolario, che fosse facile da scrivere, leggere e ricordare, e che, finale ma non ultimo, fosse portatrice di valori guida e fermasse l’immagine del mio futuro desiderato.

Dopo numerosi tentativi, mi è uscita la parola: eurealizzazione. Dove eu è parola suffisso derivata dal greco con significato di bene, buono, vero. E realizzazione ha una doppia accezione, ovvero rendere reale ciò che è ancora ideale o potenziale; e verificarsi, come il verificarsi di una visione, ma anche come l’autenticarsi di un’ipotesi.

Prova settimanale dell’eroe

Se la storia che ti ho raccontato ha fatto nascere anche in te la voglia di cimentarti con la creazione di un tuo gengo personale, so che come me lo farai con grande serietà e rispetto; che terrai bene a mente che in fondo stai mettendo mano a una tradizione millenaria per cui la creazione di un gengo non è un divertissement.

Non so come sia per te, ma io credo fortemente nella contaminazione culturale. Anzi, la auspico.

Tuttavia cerco sempre di ricordare a me stessa che quando si entra nella storia di qualcun altro, è bene farlo in punta di piedi e senza scarpe.

L’ho scritto anche qui, raccontando tra l’altro di un’altra tradizione giapponese (Ok, forse ho una vaga ossessione per il Giappone, la sua cultura e la sua storia).

 

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[#doroashi] «Quando entri nella vita degli altri, togliti le scarpe» • Intorno agli anni Cinquanta, il filosofo René Guénon scriveva: «Non per una semplice coincidenza vi è una stretta similitudine fra i termini “sacro” (‹sacratum›) e “segreto” (‹secretum›): si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di ciò che è messo da parte (‹secernere›, mettere da parte, da cui il participio ‹secretum›), riservato, separato dal dominio profano […]» • I giapponesi hanno il dono dell’esprimere concetti complessi in una sola parola: <doroashi>, per esempio, significa “entrare con i piedi sporchi”. Entrare in casa, propria o di altri, con le scarpe rappresenta per la cultura giapponese un’offesa alla sacralità del tatami, il pavimento tradizionale, che delimita lo spazio interno, e più metaforicamente interiore, da quello esterno. • Lo spazio interno, segreto e riservato, rappresenta dunque lo spazio sacro da preservare e proteggere da ciò che potrebbe sporcare e intaccare la fragile ecologia del nostro ambiente intimo. Non so cosa ne possa pensare tu, a me sembra una consuetudine meravigliosa: un piccolo gesto senza pretese capace di tenerci vigili e attenti su ciò che facciamo entrare e su ciò che portiamo nelle nostre e altrui vite. • Non si tratta di una ricerca nevrotica e compulsiva di un candore artificiale, bensì di un invito alla purezza intesa come ‘non corruzione’. Come dire: «Quando attraversi la soglia del segreto, tuo o dell’altro, abbi l’accortezza di portare di là solo quel che sei, senza infingimenti e sofisticazioni. Senza maschere. Senza le sozzure del fuori» Non sempre ci sono riuscita e ci riesco, però ci penso e ci provo. E più ci provo, più ho possibilità di riuscirci. • Che ne pensi di introdurre questo rituale minimo nella tua storia? . . . #coachinginfabula #rituali #ecologia #abitudini #cambiamento #mindset

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