Io riflesso di Charles Horton Cooley e meccanismi di compiacimento

E quando tutto ciò che poteva andare male è stato scongiurato, quando lui e lei sono finalmente liberi di amarsi e di principiare la loro vita insieme, lui la porta sul tetto di un palazzo con vista sulla città. La parte più bella della città, manco a dirlo.

Su quel terrazzo ha predisposto una romantica cena per due: il tavolo finemente apparecchiato, sotto le campane luccicanti piatti che Cracco je spiccia casa, candele, piccole luminarie dorate, vinello in fresco, musica giusta.

E mentre ballano abbracciati, occhi negli occhi, core a core, lei lo guarda con emozione e gli chiede: «Ma tu, chi sei davvero?»

E lui, nella migliore delle tradizioni (e delle menzogne): «Chiunque tu voglia che io sia»

La camera si allontana lenta. Titoli di coda.

Non è un film (ma non lo abbiamo capito benissimo)

A quel punto ci alziamo dal divano convinti che il vero amore esista e che sia quella roba lì: lui che compiace lei, lei che compiace lui.

E se non è così che va nella vita – se lui non s’accorge che lei ha bisogno di una cena romantica su un tetto che domina la città, se lei non s’accorge che lui ha bisogno di sentirsi dire quanto sia speciale, unico, magico –, allora non va.

Allora non è amore.

Se il problema fosse limitato alla spazzatura di pensieri che chiamiamo ideale romantico, potremmo dirci salvi in tutte le altre relazioni sociali: salvi nelle amicizie, salvi nei rapporti con i vicini e i prossimi, salvi nelle relazioni professionali. Single, probabilmente, ma salvi.

E invece no. Perché lo stesso meccanismo di compiacimento lo portiamo fuori dalle relazioni romantiche. Anzi, la verità è che è proprio fuori che comincia a fare capolino. Più che fuori, in altre relazioni.

Charles Horton Cooley e l’io riflesso

«Io non sono chi penso di essere, e non sono chi tu pensi che io sia. Io sono chi penso che tu pensi io sia»

Stavo preparando un esame universitario e in non ricordo quale manuale di studio l’autore citava questa frase del sociologo statunitense Charles Horton Cooley, padre della teoria del looking-glass self, o dell’ io riflesso.

Cooley osservò come l’io di una persona fosse il risultato delle percezioni che quella persona ha nelle interazioni sociali e nei rapporti interpersonali.

Secondo questa teoria, io, tu e tutte le persone che conosciamo e non conosciamo, siamo la somma delle percezioni che abbiamo in ogni scambio relazionale.

Il meccanismo dell’io riflesso

Tu e io entriamo in relazione.

Qualsiasi sia la natura di questa relazione, sia tu che io ci faremo un’idea di come tu possa vedere me e di come io possa vedere te.

Potrei per esempio pensare che tu mi veda come una donna eloquente e sicura; o al contrario, silenziosa e incerta. E viceversa e in altre mille mila varianti immaginabili.

Nel momento esatto in cui la percezione «Tizia pensa di me che io sia…» entra in circolo nel sistema di pensieri, la medesima informazione entra anche nella relazione, modificando così il nostro comportamento affinché aderisca il più fedelmente possibile a quell’idea.

Anche quando quel comportamento adottato, in altre situazioni e momenti, non avremmo esitato a definirlo inappropriato, o spiacevole, o totalmente avulso dal nostro modello di valori.

Perché diavolo l’ho fatto?

Sono sempre stata un esemplare umano piuttosto autonomo e indipendente.

Oserei dire che autonomia e indipendenza sono iscritte nei miei geni come gli occhi verdi e i capelli rossi.

Tuttavia, c’è stato un lunghissimo periodo della mia vita che, complici i tanti cambiamenti improvvisi e probabilmente le fattezze fisiche (il corpo minuto, l’altezza minima, gli occhi grandi che fanno sempre cerbiatto spaventato) avevo l’impressione che tutti mi vedessero come il gattino raccattato la notte di Natale in una nota pubblicità di spaghetti degli anni Ottanta.

Ed è proprio da quell’«avevo l’impressione» che è iniziato il mio periodo Piccola fiammiferaia culminato con gli attacchi di panico. Ero diventata la copia conforme di quella Carlotta spaesata, bisognosa, randagia, che pensavo gli altri vedessero guardandomi.

Ti è mai successo qualcosa di simile?

Hai mai pensato, tornando a casa da una serata, un incontro, una riunione: «Perché mi sono comportata (o comportato) così?»

Riguardando a un momento della tua vita come in un flashback, ti sei mai chiesta, o chiesto: «Per quale ragione ho giocato quel ruolo?»

(Se vuoi lavorare sui Flashback puoi provare il Prompt 20.52 che trovi nella Clique degli Autori)

Like, dislike e cuoricini

Impression, si chiamano così: impressioni.

Un like e un cuore dicono di me che vado bene, o benone. Una risata, invece, potrei anche prenderla come una reazione sarcastica, un: «Che cazzata hai detto?!»

E la faccina arrabbiata? Ti fa arrabbiare il tema, o ti fa arrabbiare la mia lettura di quel tema? E se l’icona piange, piange per la stronzata che ho scritto o perché ciò che ho messo nero su bianco e pubblicato ti ha addolorato, o persino commosso?

E nessuna reazione significa che valgo meno di niente; che sono così poco interessante da risultare invisibile; che non c’è spazio per me?

E magari ora tu pensi che io esageri. Che nessuno è tanto folle da farsi certe domande. Davvero?

Perché posso raccontarti delle tante (troppe) conversazioni avute con persone disperate – ma disperate davvero, spesso in lacrime – perché i loro social avevano un calo di like, perché c’erano meno cuori, più pollicioni in giù ai loro video, e commenti sprezzanti e inutilmente sgarbati ai loro contenuti.

Posso raccontarti di persone incredibilmente dotate e talentuose demolite dalla logica delle impression.

Posso raccontarti di quanto spesso quell’io che si riflette e si riconosce nell’impronta negativa che pensiamo di aver lasciato si striminzisce fino a scomparire.

(Puoi approfondire il tema dell’identificazione qui)

Ribellarsi

Le lezioni più sagge per la vita arrivano spesso dai bambini.

Una di queste lezioni, per esempio, mi è arrivata dalla figlia di una mia cliente, Sofia, che è stata spesso con noi durante gli incontri di coaching.

Mentre la mamma mi stava raccontando della difficile situazione al lavoro dove, dopo il rientro dalla seconda maternità, percepiva da parte del suo team molta ostilità e anche molta disapprovazione per il fatto che spesso arrivasse in ufficio trafelata, struccata, magari con una macchia di rigurgito sulla giacca, Sofia ascoltava.

A un certo punto, in un momento di silenzio, mio e della sua mamma, Sofia guarda la madre e le dice con tono molto assertivo: «Mamma, tu ti devi ribellarti!»

Dopo un attimo di stupore muto, oso chiederle: «In che senso, Sofi, cosa vuol dire che mamma deve ribellarsi?»

E lei: «Che deve sentirsi bella come prima»

Ribellarsi come tornare a percepire ciò che abbiamo di bello, escludendo il pensiero di ciò che gli altri ritengono sia il nostro bello, al di là di ciò che noi pensiamo che gli altri pensano debba essere il nostro bello.

Sofia. Cinque anni. Sipario.

E se ribellarsi volesse davvero dire riscoprire la propria bellezza, anche il pensiero di Antonino del Laboratorio Zanzara assumerebbe un altro senso:

Se uno non si ribella scompare nella proiezione di un Io. Nell’idea di un Io.

Quindi, ribellati! Anzi, ribelliamoci, e diventiamo la manifestazione di un Io.

Prova settimanale dell’eroe

Vuoi provare a ribellarti al «Io sono chi penso che tu pensi che io sia»?

Inizia da qui: ogni volta che pensi di te qualcosa di terribile, di sminuente, di avvilente, prova a pensare a chi, tra le persone che conosci, potrebbe dirti quelle cose.

Poi visualizza quella persona, come ce l’avessi di fronte, mentre ti dice quelle cose, e quando avrà smesso di parlare, licenziala (quella voce e quella visione) così: «Grazie per il tuo tempo, ma io non sono chi penso che tu pensi che io sia. Puoi andare»

Fai un bell’inchino come se ti congedassi da un palcoscenico alla fine di uno spettacolo teatrale e riprendi il ruolo di protagonista nella storia della tua vita.